E' curioso come il sol nominare Andrea Bocelli scateni immediatamente un putiferio su i social, aprendo solchi profondi tra schieramenti opposti di adoratori e odiatori.
Non ha fatto eccezione l'esibizione televisiva di ieri sera, seguita praticamente in diretta sui social con contorno di gustosi e controversi commenti real time.
Io una mia idea ce l'ho e provo a dirvela. Premesso che parlerò solo dell'artista Bocelli e non dell'uomo, che non conosco e di cui non ho elementi tali da farmene un 'opinione compiuta.
Andrea Bocelli nasce cantante di musica leggera, proponendo un pop melodico gradevole e senza pretese. Il successo arriva repentino e in maniera abbastanza imprevista quando ha già 37 anni col brano "Con te partirò" di Lucio Quarantotto su testo di Francesco Sartori. Il brano si classifica quarto al Festival di Sanremo senza destare particolari entusiasmi. L'anno dopo, però, la canzone viene usata per uno spot pubblicitario in Germania ed è un successo di pubblico incredibile. E dalla Germania contagia il resto del mondo, tanto che Sarah Brightman (la moglie di Andrew Lloyd Webber) chiede di incidere il pezzo duettando con Bocelli: la canzone, con testo in inglese e col titolo "Time to Say Goodbye" sale ai vertici delle classifiche di tutto il mondo. Contemporaneamente la storia del ragazzo italiano non vedente che sognava di fare il tenore diventa una "favola" che commuove i cinque continenti e cominciano a fioccare contratti e proposte di lavoro; per dirne una, Bocelli, fino a quel momento perfetto sconosciuto è invitato a cantare quello stesso anno l'inno dell'UEFA per la finale di Champions. Caterina Caselli, la sua discografica, capisce di aver in casa una miniera d'oro e da qui cominciano anche le controversie. Perché il sogno del buon Andrea è quello di cantare l'opera, e il fatto di avere una platea mondiale pronta ad acclamarlo e a comprare i suoi dischi mobilita una serie di personaggi, anche molto importanti (qualcuno li definirà complici) dell'ambiente operistico quali Maazel e Pavarotti, affinché il sogno diventi realtà e pure ad alti livello, anche se i mezzi vocali sufficienti a cantare la musica leggera non sono quelli necessari per cimentarsi con l'opera lirica.
Da qui parte la "questione Bocelli". Gli appassionati di lirica si rendono immediatamente conto dei limiti vocali del nuovo arrivato a cui si aprono le porte di grandi teatri e grandi eventi solo in virtù dell'acquisita popolarità. Per contro è meritoria l'attenzione che il cantante toscano catalizza sul melodramma, anche se molti suoi "seguaci" si fermano all'ascolto dei suoi dischi senza approfondire l'argomento. A tutt'oggi Bocelli ha venduto circa 80 milioni di dischi (è come se ogni italiano, neonati inclusi, avesse un suo disco e un'altra decina di milioni due...) è invitato a cantare praticamente ovunque, Casa Bianca compresa, e, in America è considerato l'erede di Pavarotti (e, musicalmente parlando, questa è un'autentica bestemmia). In pratica dal côté "musica lirica" Bocelli è visto come un usurpatore che, con mezzi vocali decisamente modesti, si può permettere, dall'alto della fama raggiunta, quello che tenori molto migliori non otterranno mai. Per contro i suoi seguaci obiettano: se vende tutti quei dischi e piace a tanta gente vuol dire che è bravo. Il punto credo che sia proprio questo: per un cocktail misterioso di fortuna, meriti e congiunzioni astrali Andrea Bocelli è diventato l'icona italiana della musica per milioni di persone in tutto il mondo a prescindere da quello che canta e da come lo canta. Solo per gli appassionati d'opera e gli amanti del belcanto il "re è nudo", ma bisogna convincersi che si tratta di temi separati: i nomi di Florez, Meli, Kunde per la maggior parte di chi compra i dischi e va agli spettacoli di Bocelli probabilmente non significano nulla ma forse è giusto così.
Il Musicofilo
venerdì 1 maggio 2015
sabato 18 aprile 2015
Billy Budd, il trionfo del coraggio
Si è sempre rimproverato ai sovrintendenti delle fondazioni liriche e ai direttori artistici lo scarso coraggio nel mettere in cartellone opere al di fuori del grande e collaudato repertorio del melodramma. La risposta a chi chiedeva un po' di innovazione era sempre la stessa "C'è la crisi, noi dobbiamo riempire i teatri" e giù con Traviate e Trovatori, sovente allestiti in economia di scene e di voci, tanto "il pubblico comunque viene". Chissà il mio amico Giuseppe Acquaviva dove è andato trovare il coraggio di mettere in programma al Carlo Felice il Billy Budd di Britten? Due ore e quaranta di musica bellissima, raffinata ma anche decisamente complessa e difficile per i "non praticanti" del genere. Sicuramente lo ha aiutato Davide Livermore che, qualche tempo fa, mi confidava di considerare quel suo allestimento di Torino, datato 2004, forse il suo lavoro più bello. Io pensavo lo dicesse perché era stata la sua prima regia importante, che lo dicesse, insomma, per affetto. Beh, da ieri sera so che diceva sul serio. E so pure che il coraggio qualche volta paga. Il Billy Budd di Britten andato in scena ieri sera al Carlo Felice non è stato un successo, è stato un trionfo. Impossibile suddividere i meriti, quando uno spettacolo è talmente totalizzante è perché ha funzionato tutto. Interpreti perfetti, e Billy Budd necessita della copertura dei tre ruoli principali e difficilissimi, ma anche di una dozzina di ruoli comprimari tutti estremamente importanti. Orchestra e coro (anzi cori) al loro meglio sotto la direzione sontuosa di Andrea Battistoni. Ho incontrato nei camerini Andrea a fine spettacolo trovandolo stravolto (e, beato lui, ha 28 anni). "Non sudavo tanto nemmeno in Arena d'estate" mi ha detto candidamente. Lui, l'orchestra e il coro sono stati per quasi tre ore una macchina da musica travolgente: la musica di Britten, l'ho detto più volte, acquista vero significato solo dal vivo, ma ieri sera, in alcuni momenti, si è fatta fenomeno "fisico", si fatta vento e mare e rabbia e disperazione, inchiodando alle poltrone i duemila fortunati che erano in sala. La regia di Livermore ha trasformato il palcoscenico del teatro non tanto nella nave "Indomitable" ma in un luogo indefinito e terribile in continua trasformazione sotto gli occhi degli spettatori. Luci, ombre, nebbia, movimenti verticali, tutto come in una specie di lunghissimo piano-sequenza cinematografico dove, al posto della macchina da presa, c'è stato il lavoro incredibile di tutte le maestranze tecniche del teatro. Io ho 60 anni e qualche teatro l'ho girato ("I am an Old Man" direbbe il capitano Vere): ebbene, a mia memoria non ricordo uno spettacolo così coinvolgente e impressionante. L'ovazione così entusiasta e convinta, prolungatasi in dieci minuti di applausi scroscianti, che c'è stata alla fine non la sentivo qui a Genova davvero da tanto tempo. Billy Budd sarà in scena ancora il 19, 21 e 23 di aprile: vi prego, fatevi un favore, non perdetelo.
giovedì 16 aprile 2015
Britten in due parole
Edward
Benjamin Britten nasce a Lowestoft, nel Suffolk, il 22 novembre 1913. Per chi
crede, come per altro lo stesso Britten, nei misteriosi segni del destino e
nelle coincidenze, la data è programmatica: il 22 novembre si festeggia Santa
Cecilia, patrona della musica.
Ultimo
di 4 figli, Benjamin ha un’infanzia serene e agiata. Il padre, Robert, è un
dentista, ed è quello che provvede all’agiatezza, ma le figure che incideranno di
più dal punto di vista musicale sul giovane Britten sono due: la madre e un
vicino di casa. La madre, Edith, oltre ad allevare i 4 figli, si diletta a
suonare il pianoforte e sarà proprio lei a dargli le prime lezioni. La signora
Edith riversava sul figlio grandi aspettative, Britten racconterà, anni dopo,
che, all’inizio di ogni lezione, sua madre, dopo averlo seduto davanti allo
strumento, lo ammoniva “Tu diventerai la quarta B della musica, le prime tre
sono Bach, Beethoven e Brahms”.
Il
vicino di casa era, invece, Frank Bridge, direttore d’orchestra e compositore
di discreta fama, che decide di prenderlo come allievo. Britten ha sempre
ricordato con piacere le lunghe lezioni estive, che duravano anche 8 ore, dove
si alternava il piano alla viola e allo studio dei primi rudimenti della
scrittura per archi.
Grazie
all’appoggio del maestro Bridge, il giovane Benjamin entra al Royal College of
Music di Londra, il più esclusivo conservatorio inglese. La carriera scolastica
la possiamo riassumere in una parola: strepitosa. Alla migliore composizione di
un allievo il conservatorio attribuiva un premio annuale intitolato ad Ernest
Farrar, giovane musicista prematuramente scomparso: in quattro anni Britten lo
vince quattro volte. Si diploma, ovviamente, con il massimo dei voti.
Benjamin
ha ventuno anni quando, morto suo padre, e non volendo gravare sulla famiglia,
comincia a lavorare per un'azienda che cura la sonorizzazione dei documentari:
è quella che viene definita “incidental music”, non esattamente colonne sonore
ma commenti descrittivi a sequenze “mute”. Oltre a procurargli di che vivere,
questa si rivelerà un’esperienza oltremodo utile per il suo futuro lavoro di
compositore d’Opera.
Questo
è il periodo degli incontri cruciali per la vita e la carriera di Britten, il
primo è quello con Wystan Hugh Auden. Britten ha 22 anni, le foto dell’epoca ci
mostrano un ragazzo alto e magro, con un naso importante e gli occhi semichiusi
da miope senza occhiali (una via di mezzo tra Leslie Howard e il principe
Carlo), Auden ha solo sei anni più di Britten ma è un leader carismatico, è già
affermato come poeta ma è soprattutto a capo del Group Theatre, un movimento
artistico, sorta di “scapigliatura” inglese, connotato dall’impegno pacifista,
se non quasi rivoluzionario, nonché frequentato da artisti in odore di
comunismo e omosessualità, come lo sono dichiaratamente lo stesso Auden e il
suo compagno Chris Isherwood. Benjamin Britten, giovane di buona famiglia,
schivo e riservato, è completamente travolto dalla personalità di Auden:
comincia a frequentare attivamente il gruppo, per il quale scrive pure "L’inno
dei pacifisti" su testo, ovviamente, di Auden.
Il
secondo incontro è quello con il tenore Peter Pears. Pears ha una voce
splendida e Britten comincia a scrivere brani per pianoforte e voce
appositamente per le sue doti vocali. E’ l’inizio di un sodalizio artistico che
si trasforma presto in una storia d’amore che durerà tutta la vita.
Nel
1939 i due raggiungono Auden che, contrario all’entrata in guerra
dell’Inghilterra, si era trasferito in America. Auden ha creato a NewYork, con
l’inseparabile Isherwood, quella che chiama “La Comune”: artisti di tutto il
mondo (c’è anche Salvador Dalì) che vivono e lavorano insieme in uno stabile di
Brooklin. Britten e Pears, dopo qualche mese, vanno ad abitare a Long Island,
trovando troppo esotico e caotico vivere e lavorare nella Comune. In America
Britten compone la sua prima opera (in realtà un’operetta) "Paul Bunyan"
su libretto di Auden.
Nel
1942 Britten convince Pears a rientrare in Inghilterra: al loro arrivo
rischiano l’arresto per diserzione, ma si dichiarano obiettori di coscienza e
vengono esonerati dal servizio militare. Per due anni lavora al progetto di
un'opera drammatica per grande orchestra, ispirata al poema "The Borough"
di George Crabbe. L’Opera viene scelta per la riapertura del Covent Garden dopo
la chiusura bellica e va in scena con il titolo di "Peter Grimes" il
7 giugno del 1945. E’ un trionfo unanime di critica e di pubblico, malgrado
l’argomento non proprio rassicurante (il protagonista è un pescatore che muore
suicida, accusato di aver abusato di due bambini!) e la musica raffinatissima
ma decisamente innovativa e difficile. In realtà, è soprattutto il ritorno di
un’opera inglese, cantata in inglese e di un autore inglese a far leva
sull’orgoglio britannico e decretarne il successo: l’ultima evento simile era
stata la rappresentazione di Enigma Variations di Elgar nel lontanissimo giugno
del 1899.
Per
Britten è un trionfo, da allora "Peter Grimes" e le altre opere
successive, alla fine saranno in tutto dodici, verranno rappresentate in tutti
i teatri del mondo, consacrando l’autore tra i grandi del novecento.
Britten,
tranne che per i frequenti viaggi turistico-musicali, non lasciò più
l’Inghilterra, si stabilì con Peter Pears ad Aldeburgh, nell’amato Suffolk in
una grande villa chiamata Red House dove soleva invitare a stabilirsi i
librettisti e i più stretti collaboratori durante i periodi di composizione
delle opere: aveva camere sufficienti ad ospitare fino a 20 persone
contemporaneamente. Con l’enorme quantità di denaro guadagnata, a parte il
vezzo di concedersi una Rolls-Royce che guidava personalmente, Britten costruì
un teatro, dove tuttora si svolge il Festival di Aldeburg, riservato a soli
autori inglesi; fondò una casa di edizioni, la Faber Music, anch’essa mirata
alla promozione degli autori britannici e istituì una serie di borse di studio
per giovani musicisti meritevoli. Prima di morire costituì la Fondazione
Britten, che continua ancor’oggi a gestire queste attività.
Il
12 giugno 1976 la Regina Elisabetta gli conferì, per meriti artistici, il
titolo di “Lord Britten di Aldeburgh”, purtroppo non poté mai sedere alla
camera dei Lord, il suo cuore generoso lo tradì la notte del 4 dicembre a soli
63 anni.
domenica 12 aprile 2015
Consigli spiccioli per affrontare il Billy Budd di Britten senza timore.
Consigli spiccioli per affrontare il Billy Budd di Britten senza timore.
(da un mio articolo del 2005)
Billy
Budd, sesta opera di
Benjamin Britten, fu composta in circa un anno, dall’inverno del ’50
all’autunno del ’51, e segna il ritorno di Britten alla grande opera, tipo Peter
Grimes, con un’orchestra completa e un vasto impianto scenico e
spettacolare dopo le tre opere precedenti, The rape of Lucretia, Albert
Herring e The Little Sweep, che erano state concepite per “piccole
orchestre” e con arrangiamenti quasi di tipo quasi cameristico.
Analizzare
le scelta stilistico-musicali di un opera come questa è estremamente difficile perché
siamo di fronte a quasi 2 ore e 40 minuti di musica: splendida, raffinatissima
ma inesorabilmente complessa. Britten ammetteva che il libretto, rimasto
sostanzialmente in prosa anche dopo la revisione di Crozier, aveva decisamente
influenzato la composizione della stessa, portando a privilegiare le soluzioni
armoniche e di arrangiamento rispetto alla melodia. In realtà, non credo esista
un’altra opera dove testi e musiche siano così indissolubilmente integrati:
sottolinea il critico inglese Michael Kennedy, che di Britten fu anche amico
oltre che biografo: “mai, in un concerto, sentirete eseguire estratti musicali
dal Billy Budd, perché fuori dal contesto perderebbero qualunque forza e
significato”.
Il
punto è che allo spettatore del Billy Budd è richiesto una piccola
aggiunta di concentrazione, ma ne vale la pena: concentratevi sullo
straordinario libretto di Forster e Crozier (mai, come in questo caso, sia
benedetto l’inventore dei sovratitoli in proiezione) e vedrete che quasi senza
sforzo, sarete coinvolti nelle invenzioni musicali di Britten e quella che, ad
un ascolto superficiale poteva sembrare musica ostica, arriverà a toccarvi
sicuramente le corde dell’emozione e a coinvolgervi in uno spettacolo straordinario.
mercoledì 7 agosto 2013
Quando ti dicono: "Dimmi un po', a te che piace l'Opera...
Mi sto rendendo conto in questi giorni che, quando si parla
con chi ha poca dimestichezza con l’Opera lirica, della gestione dei teatri a
questa dedicati, si viene trattati come eccentrici che chiedano soldi per
soddisfare i propri capricci a spese della collettività. Ormai quasi tutti
hanno compreso che l’opera è uno spettacolo costoso che non si mantiene con gli
incassi in nessuna parte del mondo. Ai più sfugge che in analoga situazione ci
sono quasi tutti i Musei e le Biblioteche, ad esempio, ma nessuno, giustamente,
ne chiede la chiusura né la trasformazione in parcheggi, ipotesi che invece
“tira” molto quando si tratta di teatri d’Opera. La soluzione che il profano,
una volta convintosi, seppur a malincuore, della necessità di mantenere aperti
questi centri di eccellenza artistica italiana (che lui più sinteticamente
tende a definire “baracconi”), propugna per prima è quella del taglio dei
costi, partendo dal principale, quello del personale. Qui, sembra impossibile,
ma bisogna fargli capire che, se il repertorio è quello, i musicisti per
suonarlo e cantarlo servono tutti. Generalmente aiuta a convincere l’interlocutore
scettico qualche esempio al limite dell’idiota, tipo, “hai mai pensato di
risparmiare comprando solo una scarpa sinistra?”. Ammesso che si convinca sui musicisti,
il procedimento va ripetuto con gli impiegati e le maestranze tecniche, magari
ricordandogli che in scena si va se c’è qualcuno che alza il sipario, illumina
il palcoscenico, cambia le scene, prenota i posti, riscalda o raffredda gli
ambienti, fa manutenzione, fa programmazione, informa la gente… Insomma fa
quelle cose che servono a tutte le aziende normali per funzionare. La parolina
magica è questa: funzionare. Perché chi non conosce il teatro, nello specifico
il nostro Carlo Felice, non sa che quando tutto funziona, col personale
necessario che fa il lavoro per cui è pagato, succede persino che la sala si
riempia e non solo con i titoli di tradizione. Senza andare troppo indietro nel
tempo, nel 2000 un’Opera del ‘900 obiettivamente difficile come Morte a
Venezia di Britten vinse il Premio Abbiati (che è quello della critica
specializzata, mica balle) ed ebbe tanto successo da essere comprato da Firenze
e Venezia (a Venezia hanno anche prodotto il DVD perché sono più furbi,
evidentemente, visto che l’allestimento di Pizzi era nostro). Nel 2007 ricordo
lo splendido Giulio Cesare di Hendel, sulla carta un opera ostica dei primi del
‘700, che riscosse un successo insospettato quanto strepitoso di pubblico e di
critica, mentre la scorsa stagione, per tornare al contemporaneo, male ha fatto
che si è persa la spettacolare lettura di Gershwin fatta dalla nostra orchestra
sotto la direzione di quel grande genio musicale di Wayne Marshall, che ha
coinvolto la sala come non ricordavo da anni. Se queste cose la cosiddetta
“gente comune” (ma pure qualche addetto ai lavori…) le conoscesse meglio,
capirebbe che quando lo spettacolo è di qualità e la gente si diverte e il
passa parola riempie la sala, la Musica non necessita più dell’elemosina di chi
“lavora sul serio”, la Musica può e deve attrarre sponsor dall’Italia e
dall’estero senza vergogna e rimettere insieme quel volano produttivo e
virtuoso che è nato in Italia, per giunta, ed è la forma più spettacolare di
Cultura, quella del Melodramma. La nostra Cultura.
venerdì 26 luglio 2013
A proposito del Carlo Felice...
In questi giorni si stanno
versando i proverbiali fiumi d’inchistro a proposito delle Fondazioni Liriche
italiane. Alla fine, in buona sostanza, tutto il problema si riassume in questa
grande semplificazione: l’Opera Lirica costa tanto e il pubblico pagante non
riesce a coprirne i costi, in questo periodo i soldi scarseggiano, per cui,
piuttosto che tenere in vita a botte di milioni di denaro pubblico uno
spettacolo che interessa a pochi, abbandoniamo i teatri al loro destino e
impieghiamo le risosrse finanziarie dove servono di più.
Messa così sembra difficile anche
solo continuare a parlarne.
E invece mi permetto di gettare
nel fiume d’inchiostro di cui sopra anche un paio di gocce mie, giuro, non di
più.
Quando un’azienda qualsiasi va
male, due sono i rimedi, in economia, per provare a risanarla: abbassare le
uscite e aumentare le entrate. Attenzione non basta applicare uno solo dei due
rimedi, perché se diminuisco solo i costi, inevitabilmente arriverò a un punto
in cui comprometterò la funzionalità operativa dell’azienda. Vanno sicuramente eliminati
gli sprechi e razionalizzate le spese ma la parola “taglio”, così di moda, in
assoluto, non vuol dire niente e non ha un’accezione positiva nemmeno nella
lingua italiana.
Allora concentriamoci sull’aumento
delle entrate. Premessa necessaria: non esistono al mondo fondazioni liriche
che possano fare a meno di contributi “esterni”, per altro previsti nella forma
pubblica dalla legge italiana che, è bene ricordarlo, li prevede anche per
l’editoria, il cinema, i famigerati partiti politici, le televisioni, e le
associazioni culturali, suscitando curiosamente meno sdegno.
Certo, l’ideale sarebbe ridurre
al minimo le risorse provenienti dalle tasse dei cittadini e aumentare invece
le sponsorizzazioni private. Per far questo sono però indispensabili due
precondizioni: la detraibilità della sponsorizzazione (come avviene in maniera
totale negli Stati Uniti, ad esempio) e l’ampliamento dell’offerta musicale,
sia come numero di rappresentazioni che come varietà di generi.
Giova ricordare come, negli anni
’60, periodo d’oro del cinema di qualità italiano, i grandi film d’arte, tipo Gattopardo o Otto e mezzo, potevano essere realizzati grazie al denaro che i
produttori reperivano con i cosiddetti musicarelli, autentici abbomini
cinematografici con protagonisti cantanti di grido tipo Rita Pavone o Gianni
Morandi, che, però, costavano poco e incassavano moltissimo.
Ovviamente nessuno pensa di utilizzare
il Carlo Felice come un palco da feste di piazza, ma dare la possibilità al Jazz
o ad una musica leggera di qualità di trovare spazi adeguati e remunerativi nel
teatro rappresenta sicuaramente un’opportunità di accesso ad un nuovo tipo di
pubblico con conseguente apporto di nuova liquidità.
Ripensare la struttura come una
casa della Musica, con ristorante e negozi “in tema” è così assurdo? Perché i
centri di aggregazione giovanile devono restare i famigerati “Centri
commerciali”? Abbattere la barriera di soggezione che il teatro mette addosso a
chi non l’ha mai frequentato dovrebbe essere una delle prime missioni per chi
guida una macchina culturale con la sede nel centro della città.
Gli sponsor privati si attirano
con un’offerta che deve rispondere a criteri di qualità artistica (e come
orchestra e coro siamo per giunta tra quelli messi meglio in Italia, non lo
dico io ma famosi direttori d’orchestra) ma anche di numero di spettatori
raggiunti e di eventi realizzati così da innescare il famoso volano positivo
che permetta di dipendere meno dai soldi pubblici (e conseguentemente pure dai
politici) e valorizzare degnamente la Lirica, che, giova ricordarlo, è la
grandissima Eccellenza Tutta Italiana (da Monteverdi in poi).
Naturalmente non esiste una
bacchetta magica per risolvere i problemi all’istante ma, tra guardare solo a
un metro dal prorpio naso, pur se pagare stipendi e fornitori rimane una
drammatica necessità, e abbandonarsi a sogni di gloria effimeri c’è sicuramente
la famosa via di mezzo, forse anche più praticabile di quanto non sembri.
Servono competenza, decisione e un pizzico di coraggio. E, possibilmente,
provare a remare tutti (CDA, lavoratori, media e cittadinanza) nella stessa
direzione: il Carlo Felice in crisi è lo specchio di una città in crisi, una
sconfitta per tutti.
lunedì 27 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XXII, Bellini
Vincenzo
Bellini nasce a Catania nel 1801
in un famiglia di musicisti che lo mandò presto a studiare
nella città della musica: Napoli. Bellini era un ragazzo di grande avvenenza
fisica ma irascibile e permaloso ma essendo anche dotato di una musicalità eccezionale
riuscì comunque ad imporsi nel panorama artistico partenopeo a dispetto del
carattere. La sua carriera è fulminea, a 25 anni con Bianca e Gernando conquista il pubblico del San Carlo e Domenico
Barbaja lo giudica pronto per Milano. Tra Milano e Venezia mieterà un successo
dietro l’altro con La straniera, I Capuleti e i Montecchi, La sonnambula e Norma, tutti su libretti di Felice Romani. A trent’anni potrebbe
essere un uomo realizzato e felice se non fosse per un grande cruccio: i
successi di Gaetano Donizzetti, per i quali soffre moltissimo. Tra l’altro
Donizzetti è già stato chiamato a Parigi e Bellini insiste tanto con Rossini
per essere invitato anche lui al Theatre des Italiennes che il buon Gioachino
acconsente. E, in realtà, fa benissimo, perché I Puritani è un successo clamoroso. Bellini è l’uomo del giorno,
Parigi è ai suoi piedi, si attende la nuova Opera con ansia. E qui arriva il
mistero della tragica fine. Subito dopo il succeso dei Puritani, Bellini ha preso a frequentare una coppia: lui è un
sedicente banchiere, forse ebreo, che si fa chiamare Samuel Lewis, lei, la
moglie, è una donna bellissima, molto più giovane del marito. Bellini va ad
abitare nella loro villa di Puteaux e non dà più notizie di sé, quasi fosse
sequestrato. In città si spargono notizie allarmanti, pare sia stato ferito in
un duello, forse è fuggito in Italia con la signora Lewis. Rossini, che si
sente responsabile del giovane, va a cercarlo alla villa e lì, il 23 settembre
del 1835 lo trova morto in un letto. Dei coniugi Lewis nessuna traccia, e
nemmeno del denaro che Bellini doveva avere con sé. Rossini chiede l’autopsia
che però non viene concessa, la salma viene inumata nel cimitero Père Lachaise
di Parigi da dove, 40 anni dopo, sarà traslata nel Duomo di Catania. Il mistero
della morte di Bellini rimane insoluto. Quando la notizia della scomparsa del
musicista si sparge, Getano Donizetti, che invece non si è mai considerato
rivale di Bellini, scriverà per lui una splendida Messa da Requiem. Bellini,
muore a 34 anni lasciandoci 11 opere e il rimpianto per quello che ancora
avrebbe potuto fare.
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