venerdì 26 luglio 2013

A proposito del Carlo Felice...

In questi giorni si stanno versando i proverbiali fiumi d’inchistro a proposito delle Fondazioni Liriche italiane. Alla fine, in buona sostanza, tutto il problema si riassume in questa grande semplificazione: l’Opera Lirica costa tanto e il pubblico pagante non riesce a coprirne i costi, in questo periodo i soldi scarseggiano, per cui, piuttosto che tenere in vita a botte di milioni di denaro pubblico uno spettacolo che interessa a pochi, abbandoniamo i teatri al loro destino e impieghiamo le risosrse finanziarie dove servono di più.
Messa così sembra difficile anche solo continuare a parlarne.
E invece mi permetto di gettare nel fiume d’inchiostro di cui sopra anche un paio di gocce mie, giuro, non di più.
Quando un’azienda qualsiasi va male, due sono i rimedi, in economia, per provare a risanarla: abbassare le uscite e aumentare le entrate. Attenzione non basta applicare uno solo dei due rimedi, perché se diminuisco solo i costi, inevitabilmente arriverò a un punto in cui comprometterò la funzionalità operativa dell’azienda. Vanno sicuramente eliminati gli sprechi e razionalizzate le spese ma la parola “taglio”, così di moda, in assoluto, non vuol dire niente e non ha un’accezione positiva nemmeno nella lingua italiana.
Allora concentriamoci sull’aumento delle entrate. Premessa necessaria: non esistono al mondo fondazioni liriche che possano fare a meno di contributi “esterni”, per altro previsti nella forma pubblica dalla legge italiana che, è bene ricordarlo, li prevede anche per l’editoria, il cinema, i famigerati partiti politici, le televisioni, e le associazioni culturali, suscitando curiosamente meno sdegno.
Certo, l’ideale sarebbe ridurre al minimo le risorse provenienti dalle tasse dei cittadini e aumentare invece le sponsorizzazioni private. Per far questo sono però indispensabili due precondizioni: la detraibilità della sponsorizzazione (come avviene in maniera totale negli Stati Uniti, ad esempio) e l’ampliamento dell’offerta musicale, sia come numero di rappresentazioni che come varietà di generi.
Giova ricordare come, negli anni ’60, periodo d’oro del cinema di qualità italiano, i grandi film d’arte, tipo Gattopardo o Otto e mezzo, potevano essere realizzati grazie al denaro che i produttori reperivano con i cosiddetti musicarelli, autentici abbomini cinematografici con protagonisti cantanti di grido tipo Rita Pavone o Gianni Morandi, che, però, costavano poco e incassavano moltissimo.
Ovviamente nessuno pensa di utilizzare il Carlo Felice come un palco da feste di piazza, ma dare la possibilità al Jazz o ad una musica leggera di qualità di trovare spazi adeguati e remunerativi nel teatro rappresenta sicuaramente un’opportunità di accesso ad un nuovo tipo di pubblico con conseguente apporto di nuova liquidità.
Ripensare la struttura come una casa della Musica, con ristorante e negozi “in tema” è così assurdo? Perché i centri di aggregazione giovanile devono restare i famigerati “Centri commerciali”? Abbattere la barriera di soggezione che il teatro mette addosso a chi non l’ha mai frequentato dovrebbe essere una delle prime missioni per chi guida una macchina culturale con la sede nel centro della città.
Gli sponsor privati si attirano con un’offerta che deve rispondere a criteri di qualità artistica (e come orchestra e coro siamo per giunta tra quelli messi meglio in Italia, non lo dico io ma famosi direttori d’orchestra) ma anche di numero di spettatori raggiunti e di eventi realizzati così da innescare il famoso volano positivo che permetta di dipendere meno dai soldi pubblici (e conseguentemente pure dai politici) e valorizzare degnamente la Lirica, che, giova ricordarlo, è la grandissima Eccellenza Tutta Italiana (da Monteverdi in poi).
Naturalmente non esiste una bacchetta magica per risolvere i problemi all’istante ma, tra guardare solo a un metro dal prorpio naso, pur se pagare stipendi e fornitori rimane una drammatica necessità, e abbandonarsi a sogni di gloria effimeri c’è sicuramente la famosa via di mezzo, forse anche più praticabile di quanto non sembri. Servono competenza, decisione e un pizzico di coraggio. E, possibilmente, provare a remare tutti (CDA, lavoratori, media e cittadinanza) nella stessa direzione: il Carlo Felice in crisi è lo specchio di una città in crisi, una sconfitta per tutti.