Mi sto rendendo conto in questi giorni che, quando si parla
con chi ha poca dimestichezza con l’Opera lirica, della gestione dei teatri a
questa dedicati, si viene trattati come eccentrici che chiedano soldi per
soddisfare i propri capricci a spese della collettività. Ormai quasi tutti
hanno compreso che l’opera è uno spettacolo costoso che non si mantiene con gli
incassi in nessuna parte del mondo. Ai più sfugge che in analoga situazione ci
sono quasi tutti i Musei e le Biblioteche, ad esempio, ma nessuno, giustamente,
ne chiede la chiusura né la trasformazione in parcheggi, ipotesi che invece
“tira” molto quando si tratta di teatri d’Opera. La soluzione che il profano,
una volta convintosi, seppur a malincuore, della necessità di mantenere aperti
questi centri di eccellenza artistica italiana (che lui più sinteticamente
tende a definire “baracconi”), propugna per prima è quella del taglio dei
costi, partendo dal principale, quello del personale. Qui, sembra impossibile,
ma bisogna fargli capire che, se il repertorio è quello, i musicisti per
suonarlo e cantarlo servono tutti. Generalmente aiuta a convincere l’interlocutore
scettico qualche esempio al limite dell’idiota, tipo, “hai mai pensato di
risparmiare comprando solo una scarpa sinistra?”. Ammesso che si convinca sui musicisti,
il procedimento va ripetuto con gli impiegati e le maestranze tecniche, magari
ricordandogli che in scena si va se c’è qualcuno che alza il sipario, illumina
il palcoscenico, cambia le scene, prenota i posti, riscalda o raffredda gli
ambienti, fa manutenzione, fa programmazione, informa la gente… Insomma fa
quelle cose che servono a tutte le aziende normali per funzionare. La parolina
magica è questa: funzionare. Perché chi non conosce il teatro, nello specifico
il nostro Carlo Felice, non sa che quando tutto funziona, col personale
necessario che fa il lavoro per cui è pagato, succede persino che la sala si
riempia e non solo con i titoli di tradizione. Senza andare troppo indietro nel
tempo, nel 2000 un’Opera del ‘900 obiettivamente difficile come Morte a
Venezia di Britten vinse il Premio Abbiati (che è quello della critica
specializzata, mica balle) ed ebbe tanto successo da essere comprato da Firenze
e Venezia (a Venezia hanno anche prodotto il DVD perché sono più furbi,
evidentemente, visto che l’allestimento di Pizzi era nostro). Nel 2007 ricordo
lo splendido Giulio Cesare di Hendel, sulla carta un opera ostica dei primi del
‘700, che riscosse un successo insospettato quanto strepitoso di pubblico e di
critica, mentre la scorsa stagione, per tornare al contemporaneo, male ha fatto
che si è persa la spettacolare lettura di Gershwin fatta dalla nostra orchestra
sotto la direzione di quel grande genio musicale di Wayne Marshall, che ha
coinvolto la sala come non ricordavo da anni. Se queste cose la cosiddetta
“gente comune” (ma pure qualche addetto ai lavori…) le conoscesse meglio,
capirebbe che quando lo spettacolo è di qualità e la gente si diverte e il
passa parola riempie la sala, la Musica non necessita più dell’elemosina di chi
“lavora sul serio”, la Musica può e deve attrarre sponsor dall’Italia e
dall’estero senza vergogna e rimettere insieme quel volano produttivo e
virtuoso che è nato in Italia, per giunta, ed è la forma più spettacolare di
Cultura, quella del Melodramma. La nostra Cultura.
mercoledì 7 agosto 2013
venerdì 26 luglio 2013
A proposito del Carlo Felice...
In questi giorni si stanno
versando i proverbiali fiumi d’inchistro a proposito delle Fondazioni Liriche
italiane. Alla fine, in buona sostanza, tutto il problema si riassume in questa
grande semplificazione: l’Opera Lirica costa tanto e il pubblico pagante non
riesce a coprirne i costi, in questo periodo i soldi scarseggiano, per cui,
piuttosto che tenere in vita a botte di milioni di denaro pubblico uno
spettacolo che interessa a pochi, abbandoniamo i teatri al loro destino e
impieghiamo le risosrse finanziarie dove servono di più.
Messa così sembra difficile anche
solo continuare a parlarne.
E invece mi permetto di gettare
nel fiume d’inchiostro di cui sopra anche un paio di gocce mie, giuro, non di
più.
Quando un’azienda qualsiasi va
male, due sono i rimedi, in economia, per provare a risanarla: abbassare le
uscite e aumentare le entrate. Attenzione non basta applicare uno solo dei due
rimedi, perché se diminuisco solo i costi, inevitabilmente arriverò a un punto
in cui comprometterò la funzionalità operativa dell’azienda. Vanno sicuramente eliminati
gli sprechi e razionalizzate le spese ma la parola “taglio”, così di moda, in
assoluto, non vuol dire niente e non ha un’accezione positiva nemmeno nella
lingua italiana.
Allora concentriamoci sull’aumento
delle entrate. Premessa necessaria: non esistono al mondo fondazioni liriche
che possano fare a meno di contributi “esterni”, per altro previsti nella forma
pubblica dalla legge italiana che, è bene ricordarlo, li prevede anche per
l’editoria, il cinema, i famigerati partiti politici, le televisioni, e le
associazioni culturali, suscitando curiosamente meno sdegno.
Certo, l’ideale sarebbe ridurre
al minimo le risorse provenienti dalle tasse dei cittadini e aumentare invece
le sponsorizzazioni private. Per far questo sono però indispensabili due
precondizioni: la detraibilità della sponsorizzazione (come avviene in maniera
totale negli Stati Uniti, ad esempio) e l’ampliamento dell’offerta musicale,
sia come numero di rappresentazioni che come varietà di generi.
Giova ricordare come, negli anni
’60, periodo d’oro del cinema di qualità italiano, i grandi film d’arte, tipo Gattopardo o Otto e mezzo, potevano essere realizzati grazie al denaro che i
produttori reperivano con i cosiddetti musicarelli, autentici abbomini
cinematografici con protagonisti cantanti di grido tipo Rita Pavone o Gianni
Morandi, che, però, costavano poco e incassavano moltissimo.
Ovviamente nessuno pensa di utilizzare
il Carlo Felice come un palco da feste di piazza, ma dare la possibilità al Jazz
o ad una musica leggera di qualità di trovare spazi adeguati e remunerativi nel
teatro rappresenta sicuaramente un’opportunità di accesso ad un nuovo tipo di
pubblico con conseguente apporto di nuova liquidità.
Ripensare la struttura come una
casa della Musica, con ristorante e negozi “in tema” è così assurdo? Perché i
centri di aggregazione giovanile devono restare i famigerati “Centri
commerciali”? Abbattere la barriera di soggezione che il teatro mette addosso a
chi non l’ha mai frequentato dovrebbe essere una delle prime missioni per chi
guida una macchina culturale con la sede nel centro della città.
Gli sponsor privati si attirano
con un’offerta che deve rispondere a criteri di qualità artistica (e come
orchestra e coro siamo per giunta tra quelli messi meglio in Italia, non lo
dico io ma famosi direttori d’orchestra) ma anche di numero di spettatori
raggiunti e di eventi realizzati così da innescare il famoso volano positivo
che permetta di dipendere meno dai soldi pubblici (e conseguentemente pure dai
politici) e valorizzare degnamente la Lirica, che, giova ricordarlo, è la
grandissima Eccellenza Tutta Italiana (da Monteverdi in poi).
Naturalmente non esiste una
bacchetta magica per risolvere i problemi all’istante ma, tra guardare solo a
un metro dal prorpio naso, pur se pagare stipendi e fornitori rimane una
drammatica necessità, e abbandonarsi a sogni di gloria effimeri c’è sicuramente
la famosa via di mezzo, forse anche più praticabile di quanto non sembri.
Servono competenza, decisione e un pizzico di coraggio. E, possibilmente,
provare a remare tutti (CDA, lavoratori, media e cittadinanza) nella stessa
direzione: il Carlo Felice in crisi è lo specchio di una città in crisi, una
sconfitta per tutti.
lunedì 27 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XXII, Bellini
Vincenzo
Bellini nasce a Catania nel 1801
in un famiglia di musicisti che lo mandò presto a studiare
nella città della musica: Napoli. Bellini era un ragazzo di grande avvenenza
fisica ma irascibile e permaloso ma essendo anche dotato di una musicalità eccezionale
riuscì comunque ad imporsi nel panorama artistico partenopeo a dispetto del
carattere. La sua carriera è fulminea, a 25 anni con Bianca e Gernando conquista il pubblico del San Carlo e Domenico
Barbaja lo giudica pronto per Milano. Tra Milano e Venezia mieterà un successo
dietro l’altro con La straniera, I Capuleti e i Montecchi, La sonnambula e Norma, tutti su libretti di Felice Romani. A trent’anni potrebbe
essere un uomo realizzato e felice se non fosse per un grande cruccio: i
successi di Gaetano Donizzetti, per i quali soffre moltissimo. Tra l’altro
Donizzetti è già stato chiamato a Parigi e Bellini insiste tanto con Rossini
per essere invitato anche lui al Theatre des Italiennes che il buon Gioachino
acconsente. E, in realtà, fa benissimo, perché I Puritani è un successo clamoroso. Bellini è l’uomo del giorno,
Parigi è ai suoi piedi, si attende la nuova Opera con ansia. E qui arriva il
mistero della tragica fine. Subito dopo il succeso dei Puritani, Bellini ha preso a frequentare una coppia: lui è un
sedicente banchiere, forse ebreo, che si fa chiamare Samuel Lewis, lei, la
moglie, è una donna bellissima, molto più giovane del marito. Bellini va ad
abitare nella loro villa di Puteaux e non dà più notizie di sé, quasi fosse
sequestrato. In città si spargono notizie allarmanti, pare sia stato ferito in
un duello, forse è fuggito in Italia con la signora Lewis. Rossini, che si
sente responsabile del giovane, va a cercarlo alla villa e lì, il 23 settembre
del 1835 lo trova morto in un letto. Dei coniugi Lewis nessuna traccia, e
nemmeno del denaro che Bellini doveva avere con sé. Rossini chiede l’autopsia
che però non viene concessa, la salma viene inumata nel cimitero Père Lachaise
di Parigi da dove, 40 anni dopo, sarà traslata nel Duomo di Catania. Il mistero
della morte di Bellini rimane insoluto. Quando la notizia della scomparsa del
musicista si sparge, Getano Donizetti, che invece non si è mai considerato
rivale di Bellini, scriverà per lui una splendida Messa da Requiem. Bellini,
muore a 34 anni lasciandoci 11 opere e il rimpianto per quello che ancora
avrebbe potuto fare.
sabato 25 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XXI, Donizetti
Nel
1822 Domenico Barbaja, il responsabile del teatro San Carlo di Napoli (oggi
diremmo il Sovrintendente) è nei guai. L’amico fraterno Rossini lo ha lasciato
senza compositore principale e senza fidanzata in un sol colpo, fuggendo a
Parigi con Isabella Colbran. Passi la fidanzata ma il compositore serve subito.
I suoi osservatori lo informano su un ragazzo che sta riscuotendo grande
successo a Venezia, un tal Gaetano Donizetti. Le informazioni sono devvero
ottime: il giovanotto è di Bergamo, è nato in una famiglia poverissima e ha
studiato musica grazie al parroco perciò verosimilmente costa poco. Per giunta
ha ritmi di composizione altissimi ma non a scapito della qualità. Barbaja lo
convoca e lo mette sotto contratto. Probabilmente nemmeno lo scafato impresario
sospetta il reale valore di questo ragazzo altissimo, magro e taciturno,
rispettoso e gentile con tutti che nel giro di pochi anni (e in presenza di un
concorrente come Bellini) si imporrà sulla scena operistica italiana.
Nel
giro di 16 anni Donizetti arriva a scrivere la bellezza di 40 opere, invero non
tutte memorabili, tanto che una critica malevola gli affibierà il soprannome di
Dozzinetti. A smentire le malelingue basterebbe solo ricordare che al periodo
napoletano appartengono Anna Bolena
(la prima vera opera romantica dell’ottocento), La donna del lago, L’elisir
d’amore e Lucia di Lammermoor. Il
1838 è per Donizetti, che ha 41 anni, un annus horribilis, perde in un’epidemia
di colera sia la giovane moglie che i due figli e, come se non bastasse, la
censura gli boccia Il Poliuto e gli
viene preferito Saverio Mercadante per il ruolo di direttore del Coservatorio.
Come
Rossini prima di lui, anche Gaetano Donizetti abbandona Barbaja e Napoli, e,
proprio su invito di Don Gioachino, si trasferisce a Parigi dove trionfa con i
capolavori della maturità: La figlia del
regimento, La favorita e Don Pasquale. Nel 1845 si manifestano i
primi sintomi di follia che si scoprirà dipendere dalla sifilide. Ricoverato
per tre lunghi anni nel manicomio d'Ivry-sur-Seine, ne uscirà solo per esser
portato a morire nella sua Bergamo nel marzo del 1848: si spegnerà lì l’otto di
aprile a soli 51 anni.
Donizetti
ci ha lasciato in totale 65 opere complete, la più rappresentata è il Don
Pasquale, da cui è tratto il filmato qui sotto. L’inizio dell’aria, affidato in
maniera inconsueta ad un malinconicissimo assolo di tromba, ispirò, per sua
stessa ammissione, a Nino Rota il tema del Padrino II con cui vinse l’Oscar.
Altro
che Dozzinetti…
mercoledì 22 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XX, Rossini
Se
mi chiedessero di cambiare la mia vita con quella di un musicista a piacere non
avrei dubbi, sceglierei Gioachino Rossini. Visse per 76 intensissimi anni
concedendosi tutto quello che desiderava. Nasce a Pesaro in una famiglia
modesta ma non povera. Esordisce a Venezia con l’opera buffa La cambiale di matrimonio che ne
sancisce l’immediato successo. Si mette in luce, oltre che per la precocità del
genio, soprattutto per la folgorante prolificità, mettendo in scena 14 opere in
soli 4 anni!! Il Turco in Italia
conquista l’impresario scaligero Domenico Barbaja, che lo vuole con sé come
autore principale a Napoli, dove è stato chiamato a dirigere il San Carlo.
Dal
1815 al 1822 è proprio a Napoli (con qualche escursione a Roma) che compone i
suoi lavori più famosi, giusto per citarne qualcuno, sono di questo periodo Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra e La donna del lago.
Ha
trent’anni ed è ricchissimo e realizzato quando si innamora della donna di
Barbaja, la (pare) bellissima Isabella Colbran, di 7 anni più anziana di lui, e
scappa con lei a Parigi. Prima di lasciare definitivamente l’Italia, trova
tempo ancora per mettere in scena a Venezia la colossale Semiramide.
Dal
1824 si stabilisce a Parigi dove è accolto come un idolo. In 5 anni mette in
scena altrettante opere, l’ultima delle quali è il celeberrimo Guglielmo Tell.
E’
il 1839, Rossini ha 37 anni e, misteriosamente, decide di abbandonare l’opera
lirica, il Tell resterà l’ultima.
Per
altri 29 anni si dedicherà all’altra sua grande passione: la cucina, oltre a
dirigere il Theatre des italiennes in cui inviterà i grandi musicisti italiani
come Donizetti e Bellini. Scriverà ancora musica non operistica, quelli che
chiamerà i suoi “peccati di vecchiaia” tra cui spiccheranno lo Stabat Mater e la Petite
Messe Solemnelle.
Morirà
di cancro nella sua sfarzosa villa di Passy il 13 novembre 1868 assistito dalla
seconda moglie Olympe Pélissier, sposata dopo la morte della Colbran nel ’46.
Per anni si è vulgata una leggenda che voleva Mozart aver inscenato la propria
morte per sfuggire ai creditori ed esser poi stato il Gohst Writer di Rossini
fino alla vera morte nel 1823 (avrebbe avuto 64 anni), spiegando così
l’improvvisa crisi operistica di Rossini. Storia suggestiva ma, ahimé,
completamente falsa.
martedì 21 maggio 2013
Una chiacchierata con Fabio Luisi e Mariella Devia
In occasione della Traviata andata in scena sabato 18 maggio al Carlo felice di Genova, ho avuto occasione di intervistare, per lo Streaming del teatro, il direttore Fabio Luisi e la protagonista Mariella Devia. Entrambi liguri, entrambi celebri, entrambi innamorati del loro lavoro. Luisi, direttore principale del Metropolitan di New York, è l'astro nascente tra i direttori italiani. Mariella Devia è forse il soprano italiano più celebre al mondo. Per un amante della lirica poter scambiare due chiacchiere con simili personaggi non è evento di tutti i giorni...
martedì 14 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: una piccola pausa prima dell'800
Con la fine del settecento l’Opera
Lirica si è divisa in troppi rivoli per poterne seguire la storia linearmente rispettandone
la cronologia. Troppi eventi sono simultanei in posti troppo distanti tra loro.
Per fortuna, essendo all’epoca la famosa globalizzazione ancora di là da
venire, le influenze degli autori sugli altri non erano così forti e immediate
come oggi, ragione per cui ho deciso unilateralmente di trattare il prosieguo
della nostra piccola storia per aree geografiche. Il piano dell’opera
proseguirà quindi con l’Italia dove, schematicamente, troveremo una bella serie
di colossi, nell’ordine:
Rossini
Donizetti e Bellini
Verdi
Mascagni, Leoncavallo e Catalani
Puccini
Di quel che succederà in Francia,
Germania, Russia e centro Europa parleremo al momento opportuno.
Alla prossima puntata con il genio di Gioachino Rossini, allora.
mercoledì 8 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIX, Salieri
La presunta rivalità con Mozart ha compromesso quasi definitivamente la fama di un grande musicista italiano: Antonio Salieri.
Nato
a Legnago nel 1750, trascorse la maggior parte della sua vita alla corte
imperiale asburgica di Vienna per la quale fu compositore e Maestro di
cappella.
Musicista dotato di
eccezionale talento e ottimo insegnante, fu maestro, tra gli altri, di
Beethoven, Schubert e Liszt.
Europa
riconosciuta, commissionatagli
dall'imperatrice Maria Teresa d'Austria innaugurò, il 3 agosto del 1778, il
Nuovo Regio Ducal Teatro, cioè l'attuale Scala, fatto erigere a Milano e la
medesima opera ha salutato, per volere di Riccardo Muti, il 7 dicembre 2004 la
riapertura del teatro scaligero dopo il lungo lavoro di restauro.
Alla
sua morte lasciò in tutto 39 Opere, tra cui spiccano La grotta di Trofonio,
Falstaff, Le Danaidi e Tarare.
A
proposito della leggenda che nel corso dei decenni nacque e si diffuse, secondo
la quale Mozart
sarebbe stato avvelenato, per gelosia, da Salieri, è ormai assodato essere
priva di qualsiasi fondamento.
Il
poeta e scrittore russo Aleksandr Sergeevič Puškin, però, credette a queste
voci, e nel 1830 scrisse la
piece Mozart e Salieri che Nikolaj Rimskij-Korsakov
musicò nel 1898. Buoni ultimi a perpetrare la trama calunniosa che renderà
Salieri ingiustamente simbolo eterno di mediocrità, saranno il commediografo
inglese Peter Shaffer e il regista Miloš Forman che nel 1984 trarrà
dall’omonimo lavoro teatrale il film Amadeus.
martedì 7 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XVIII, Lorenzo Da Ponte
Lorenzo da Ponte, il
librettista del trittico italiano di Mozart, ha avuto una vita che meriterebbe
un film. Nasce in una famiglia ebrea, figlio di Geremia Conegliano e Ghella
Pincherle. Nel 1763 il padre, rimasto vedovo e desideroso di sposare una
giovane cristiana, fa convertire tutta la famiglia, che prende il nuovo cognome
da quello del vescovo che li battezza, Monsignor Da Ponte.
Dopo la morte del vescovo,
nel 1768, lascia il seminario di Ceneda per quello di Portogruaro, dove viene
ordinato sacerdote nel marzo 1773.
Subito dopo si trasferisce
a Venezia, dove però si dimostra libertino e spregiudicato, frequentando
addirittura Giacomo Casanova, e il 17 dicembre 1779 viene bandito per 15 anni
dalla Repubblica di Venezia.
Si trasferisce a Dresda,
dove il "poeta della corte sassone" Caterino Mazzolà, che più tardi
lavorerà con Mozart alla Clemenza di Tito,
lo inizia alla sua nuova attività di poeta e librettista.
Giunto a Vienna nel 1781,
per interessamento di Antonio Salieri, diventa Poeta di Corte dell'imperatore
Giuseppe II. Va ricordato che, in quegli anni, era quasi d'obbligo che le opere
avessero il libretto in italiano. Da Ponte si dimostra una macchina da lavoro in
grado di sfornare per i musicisti più in voga come Salieri e Joseph Weigl, una
quarantina di libretti di successo in italiano, ma anche in francese e in
tedesco.
È di questi anni la
collaborazione con Mozart per la creazione dei tre capolavori italiani.
Dopo la morte di Giuseppe
II, nel 1790, Da Ponte cade, come l’amico Mozart, in disgrazia presso la Corte e nel 1791 è
costretto a lasciare Vienna.
Si dirige inizialmente a
Praga, dove ritrova il vecchio amico Giacomo Casanova e poi nuovamente a
Dresda.
Dall'autunno 1792 all’estate
del 1805 vive a Londra dove scrive libretti per una compagnia operistica italiana
e fa per dieci stagioni, dal1794 al 1804, l'impresario del King's Theatre,
allestendo 28 prime; si sposa in quel periodo con Nancy Grahl, di 20 anni più
giovane.
L'attività di impresario
si risolve in un disastro finanziario che Da Ponte addebiterà, nelle sue
memorie, al socio in affari Taylor. In ogni caso il precipitare degli eventi lo
induce a lasciare il paese per trasferirsi addirittura negli Stati Uniti,
seguito in breve dalla famiglia.
Inutile notare come nel
selvaggio West ci sia scarsa necessità di librettisti. Inizialmente si
stabilisce a New York, per trasferirsi poi a Filadelfia dove apre un poco
artistico negozio di ferramenta.
Dopo 10 anni, nel 1820 arriva
a New York in tourné la compagnia di Manuel Garcia, e con lui la figlia Maria Malibran,
la più grande cantante lirica del momento. Da Ponte li va a trovare in hotel e
si fa riconoscere: ha 71 anni e in Europa nessuno ne ha mai più sentito
parlare, la Malibran è commossa: può abbracciare il librettista di Mozart!
I giornali lo celebrano,
si trasferisce a New York e qui apre una più onorevole libreria e si dedica all'insegnamento della
lingua e della letteratura italiana, fino a divenire, nel 1825, il primo
professore di letteratura italiana nella storia del Columbia College (oggi
Columbia University) a Manhattan.
Sempre nel 1825 organizza
la prima americana del Don Giovanni e da quel momento cerca, invero con scarso
successo, di promuovere la costituzione di un primo teatro operistico americano,
allestendo anche una tourné della nipote Giulia Da Ponte, in cui vengono per la
prima volta in America, proposte le musiche di Gioacchino Rossini.
Dal 1823 al 1827 pubblica
le sue Memorie in tre volumi; una loro stesura definitiva viene redatta dal
1829 al 1830. Nel 1828, a
79 anni di età, viene naturalizzato cittadino degli Stati Uniti d'America.
Muore il primo agosto 1838 a 89 anni e, come per
l’amico Mozart, anche il suo luogo di sepoltura non ci è noto: sepolti nel
vecchio cimitero cattolico di Manhattan, dietro la Old Saint Patrick's
Cathedral di Mulberry Street, i suoi resti si mescolarono a quelli di altri
quando, nel 1848, le salme furono traslate nel nuovo cimitero del Calvario a
Queens, dove oggi lo ricorda un cenotafio.
domenica 5 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XVII, Mozart, parte II
La
svolta artistica e di vita di Amadé Mozart avviene tra il 29 novembre 1780 e il
29 gennaio 1781.
Il
29 novembre 1780 muore Maria Teresa d’Austria e sale al trono di Vienna
l’Arciduca d’Austria Giuseppe II, grande appassionato d’opera.
Il
29 gennaio 1781 va in scena a Monaco l’Idomeneo re di Creta su libretto
di Varesco che riscuote un successo formidabile e meritato. Quest’opera sparirà
dal repertorio, oscurata dai successi viennesi, e sarà ripescata solo negli
anni ottanta del novecento. Nel 2005 Muti la proporrà cose opera di apertura
della stagione alla Scala.
Sull’onda
del successo di Monaco, Mozart è invitato a scrivere un’Opera per la corte di
Vienna: è il momento che aspettava da tutta la vita. Decide di
trasferirsi a Vienna malgrado il padre lo metta in guardia dalle insidie della
vita di corte e, almeno in questo caso, Leopold non ha tutti i torti. Giuseppe
II è circondato da italiani, custodi musicali dell’ortodossia dell’Opera:
Antonio Salieri è il compositore di corte, il conte Rosemberg Orsini il
potentissimo direttore dei teatri imperiali con diritto di censura su tutti i
lavori.
Diciamo
che il giovane Amadé non fa nulla per conquistarsi la benevolenza dei potenti
italiani: propone un opera in tedesco invece che in italiano, un Singspiel (opera
con parti recitate a mo’ di Opera Comique francese) in tre atti tratto da
Christoph Friedrich Bretzner: Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal
serraglio). L’adattamento del libretto è affidato al giovane e bravo
Gottlieb Stephanie, al quale Mozart impone numerose e sostanziali modifiche,
soprattutto nel finale, un po’ ruffiano, in cui il Sultano perdona
magnanimamente i protagonisti come un moderno monarca illuminato quale, ad
esempio, Giuseppe II.
La proposta suscita più di una reazione, una vicenda
ambientata in Turchia, in un harem e, per di più, con elementi da opera buffa
italiana non pare degna di essere rappresentata in un teatro di corte, dove
Rosemberg Orsini fa applicare rigidamente la selezione scarlattiana delle Opere
Serie.
Mozart ha però dalla sue l’Imperatore in persona,
che prova gtande simpatia per il musicista di Salisburgo e, il 30 luglio 1781,
l’opera va in scena.
E’
un successo straordinario: solo nel 1782 venne rappresentata 15 volte, l'anno
seguente ci furono rappresentazioni in quasi tutte le città d’Europa.
Da
questo momento si dipanano due vicende distinte, quella della parabola
artistica luminosa di Mozart, che toccherà il suo culmine con le tre opere
italiane in collaborazione con Lorenzo da Ponte e quella della spirale
discendente della sua esistenza terrena che lo porterà alla miseria e alla
morte nel giro di 10 anni.
Sull’onda del successo Mozart da una svolta alla
sua vita. Alla fine dell’82 si sposa con Costanza Weber, sorella minore di una
sua antica fiamma. Il padre Leopold non è d’accordo ma questo rafforza ancor
più il proposito di Amadeus che si sente ormai affrancato dalla figura che lo
ha oppresso per tutta la
vita. Con la moglie inizia a frequentare la vita mondana di
Vienna, il che lo porta a spendere ben più di quel che guadagna e ad
indebitarsi. L’attivita compositiva non può che soffrire di questa sua nuova
vita dissipata e nel 1783 lascia incompiuto un progetto L’oca del Cairo
su libretto di Varesco per dedicarsi allo Sposo deluso, che sarà
comunque lasciata a metà, ma che segna la prima collaborazione con Lorenzo da
Ponte, compagno di bagordi ma anche scrittore formidabile. In realtà i due
cominciano a lavorare alle Nozze di Figaro intravedendo le potenzialità
del testo di Beaumarchais.
Il 1786 si apre con la visita a Vienna della
sorella dell’imperatore Maria Cristina con il marito Duca di Sassonia e per
festeggiarli si allestiscono, nell’orangerie di Schonbrunn due palchi per due
opere con tema il teatro nel teatro, sul primo palco Salieri presenta in
italiano Prima la musica, poi le parole su libretto di G.B. Casti, sul
secondo Mozart allestisce Der Schauspieldirektor (l’impresario teatrale)
atto unico su libretto del fido Stephanie, poco significativo nel suo panorama
operistico.
E poi fu il travolgente finale di partita.
Dal
1787 al 1790 irrompe con la violenza di un uragano sulla scena europea la “trilogia
italiana” con Da Ponte: Le nozze di
Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte; tre opere che anticipano
di mezzo secolo la grande tradizione operistica ottocentesca.
Nel
1890 muore Giuseppe II, suo protettore. Gli succede il fratello minore Leopoldo
II e per la sua incoronazione Mozart realizza La clemenza di Tito, su libretto di Caterino Mazzolà, Opera di
scarsa ispirazione.
Con
l’avvento del nuovo Imperatore l’amministrazione delle “cose musicali” a corte
torna saldamente nelle mani di Salieri e degli italiani e il povero Mozart è
esiliato, per lavorare, nei teatri popolari.
L’impresario
Emmanuel Schikaneder gli concede il periferico Teatro Auf der Wieden per
allestire quella che resterà la sua ultima Opera, il Singspiel Die Zauberflote (Il Flauto magico).
All’alba
del 5 dicembre 1791 Wolfgang Amadeus Mozart spira; il referto medico dice “di
polmonite”. Accanto a lui, al momento del trapasso, non c’è nessuno: la moglie Costanza era tornata dai genitori portando
con sé il figlio già da un anno. Non essendoci soldi nemmeno per il funerale,
Mozart è sepolto in una fossa comune. Il suo corpo non sarà mai ritrovato.
Al
più grande musicista di tutti i tempi è negata persino una tomba.
A
sua memoria restano le 626 partiture, monumento maestoso ed eterno al suo
genio musicale.
sabato 4 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XVI, Mozart, parte I
Il
‘700 si apre e si chiude con due grandi musicisti di lingua tedesca: abbiamo
visto il grande Hendel, all’inizio, troviamo l’immenso Mozart alla fine.
Per
la critica musicale mondiale Wofgang Amadeus Mozart è unanimemente il più
grande musicista mai vissuto sulla terra.
A
conforto di questa impegnativa dichiarazione possiamo prendere in esame alcuni
freddi dati, che, per loro natura, non mentono mai:
Scrisse
la prima composizione a 5 anni (minuetto per tastiera in sol maggiore).
La
prima sonata a 6 anni (pianoforte e violino in do maggiore)
La
prima sinfonia a 9 (Numero 1 in
mi bemolle maggiore).
La
prima opera, l’intermezzo Apollo et Hyacinhtus su libretto in latino di
Rufinus Wild, a 11 anni.
Ludwig
von Kochel, che ha catalogato (Kochel Verzeichnis) per cronologia
di composizione tutti i lavori di Mozart, assegna all’ultimo, il requiem, il
numero 626. Mozart visse 35 anni e, pur sapendo che la K1 fu composta a soli 5
anni, 626 opere in 30 anni è una media spropositata. Basti pensare che
Beethoven che visse ventun anni di più, porta in catalogo 138 lavori certi, che
salgono a 205 nel catalogo Kinsky-Halm che conteggia, per ammissione degli
stessi curatori, anche lavori di incerta attribuzione.
La
quantità normalmente non è indice statistico di qualità, se mai vale spesso il
contrario; la grandezza di Mozart sta invece proprio qui, nell’abbinare a una
facilità compositiva stupefacente una qualità musicale tanto grande e
innovativa da sbalordire ad ogni ascolto anche oggi, a oltre duecento anni
dalla composizione.
Le
vite dei grandi artisti sono spesso segnate da un episodio o un incontro che ne
diventano il cardine, ne determinano la svolta. Per Mozart
la figura chiave è sicuramente quella paterna, figura che lo condizionerà nel
bene e nel male, nel successo e nella rovina.
Leopold
Mozart a metà del settecento è compositore ed insegnante di musica con
l'incarico di vice KappellMeister a Salisburgo, presso la corte dell'arcivescovo
Anton Firmiane ed è sposato con Anna Maria Pertl. Il 27 Gennaio 1756 nasce il
loro ottavo figlio che viene battezzato Joannes Chrisostomus (che ricorre in
quella data) Wofgang (in omaggio al nonno materno) Teofilo (come il padrino di
battesimo Teofilo Pergmayr). Il padre lo chiamerà nei primi anni affettuosamente
Wolferl (lupetto), crescendo il ragazzo preferirà la traslitterazione latina di
Teofilo Amadeus, che francesizzerà in Amadé dopo il 1771. Su sette figli nati
dal matrimonio sopravvivono al primo anno di vita solo Marianna, di cinque anni
maggiore e Amadeus.
Leopold
Mozart si accorge subito della recettività musicale del piccolo Amadeus: a tre
anni batteva i tasti del clavicembalo, a quattro suonava già brevi pezzi, a
cinque compone il minuetto K1.
In
una lettera ad un amico di Augusta, Johann Jakob Lotter, Leopold definisce suo
figlio "Il miracolo che Dio ha fatto
nascere a Salisburgo" e pertanto si sente in dovere di far conoscere
il miracolo a tutto il mondo e magari di trarne qualche profitto.
Al
posto di un’infanzia il piccolo Mozart ha una tourné: praticamente per 10 anni
dal ’63 al ’73 Leopold Mozart porta il suo gioiello in giro per tutte le corti
d’Europa ad esibirsi prima come enfant prodige al pianoforte, poi, dopo i dieci
anni, anche come compositore. E’ a Monaco, Parigi, Napoli, Milano, Roma; conosce
Bach, Paisiello, Hasse (che dichiarerà
“Questo ragazzo ci farà dimenticare tutti”), Piccinni e Parini (che gli scriverà il libretto dell’Ascanio in Alba). Nel 1770 tiene un concerto privato per
papa Clemente XIV che lo insignisce dello Speron d’oro.
Le
lettere che Leopold scrive agli amici di Salisburgo raccontano l'universale
ammirazione riscossa dai prodigi di suo figlio, ma si capisce che quello
realmente felice è lui.
In realtà delle otto opere giovanili l’unica che si
segnala per un certo successo è il Lucio Silla (libretto di de Gamerra da Metastasio) che
viene eseguita a Milano nel 1772.
Ormai, si fa per dire, diciassettenne, Mozart
rientra a Salisburgo. Suo padre ha capito che il ragazzo è troppo “vecchio” per
fare il bambino prodigio, non è riuscito a sistemarlo presso le corti più
importanti e vuole trovargli una sistemazione a Salisburgo, magari alla corte
dell’arcivescovo che ora è l’odioso
Hyeronimus Colloredo. Il giovane Amadeus è però sempre più insofferente alla
meticolosa programmazione che il padre vuole fare della sua vita e chiede di
andare a Parigi per provare a sfondare lì; Leopold acconsente ma lo fa
accompagnare dalla mamma. Dopo l’esecuzione pubblica della sua prima sinfonia
parigina, la madre si ammala improvvisamente e muore: fine del sogno parigino e
rientro a Salisburgo. Leopold corona il sogno di vedere suo figlio assunto a
corte come assistente musicale (per quanto con paga equiparata ai giovani di
cucina…), e progetta di indirizzarlo verso una tranquilla carriera di KappelMeister,
ma Amadeus non ci sta: ha 20 anni e, soprattutto, ha preso coscienza delle
proprie capacità musicali e Salisburgo gli sta decisamente stretta. E non ne
può più della vicinanza ossessiva di questo padre ingombrante che, da quando è
venuto al mondo gli è stato col fiato sul collo.
Continua
giovedì 2 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XV, Cimarosa
L’altro grande autore napoletano di fine settecento è Domenico Cimarosa,
che napoletano di nascita non è, in quanto nasce ad Aversa (oggi provincai di Caserta) il 17 dicembre 1749.
E’ figlio di Gennaro
Cimarosa, un muratore occupato nella costruzione della Reggia di Capodimonte,
che rimarrà vittima di quella che oggi definiremmo morte bianca, cadendo dal
tetto del palazzo ancora in costruzione.
Da subito il giovane
Domenico dimostrò di essere estremamente versato per la musica, tant'è che nel
1761 fu ammesso al Conservatorio di Santa Maria di Loreto, dove rimase undici
anni studiando con Alessandro Scarlatti e Niccolò Piccinni.
Nel carnevale del 1772
debuttò come operista con la commedia per musica Le stravaganze del conte,
data nella capitale partenopea al Teatro dei Fiorentini e seguita dalla
farsetta Le magie di Merlina e Zoroastro, e fu l’inizio di una luminosa
carriera.
I suoi intermezzi comici
conquistarono Roma e di lì, con l'intermezzo L'italiana in Londra è la
volta, nel 1780, della Scala di Milano, che era stata inaugurata appena due
anni prima con Europa Riconosciuta di Salieri. L’anno dopo è la volta di
Dresda, dove, nei primi anni ottanta, ben quattro sue opere saranno tradotte in
tedesco.
A Napoli la sua fama è
così fulgida che viene nominato Maestro di Cappella Reale, con grande rabbia di
Paisiello.
Fino all’87 inanella un
successo dietro l’altro in tutti i teatri d’Italia e, per la fama anche internazionale
dovuta a Giannina e Bernardone viene chiamato da Caterina II a San
Pietroburgo dove viene pure lì nominato Maestro
di Cappella Imperiale.
Cimarosa rimase in
Russia tre anni componendo a ritmi forsennati, è comunque da ritenere come
assolutamente falsa l'affermazione di Pompeo Cambiasi e altri biografi italiani
che sostenevano che in quel periodo avesse scritto circa 500 opere!
Chiamato a Vienna da
Leopoldo II (quello di Mozart), che conosceva da quando era granduca di
Toscana, viene nominato Kappelmeister anche lì e messo in contatto con il
librettista Giovanni Bertati, il quale era stato da poco nominato a sua volta Poeta
di Corte. Questa unione generò quello che è considerato il capolavoro assoluto
di Cimarosa: Il matrimonio segreto.
Questo lavoro detiene a
tutt’oggi un record difficilmente battibile. Rappresentato al Burgtheater il 7
febbraio 1792, ebbe un tale strepitoso successo, che, nella stessa sera della
prima, per volere dell'imperatore in persona, l'opera fu rimessa in scena per
intero: unico caso nella storia dell’Opera di bis integrale.
Cimarosa ritornò a
Napoli presumibilmente durante la primavera del 1793, dopo un'assenza di sei
anni. Fu accolto con calore e il popolo lo acclamò al grido “è tornato o’
choiattone nuost” (è tornato il nostro grassone) giacché Cimarosa era alto
quasi un metro e novanta ed era decisamente sovrappeso. Il matrimonio
segreto, che fu messo subito in scena al Teatro dei Fiorentini, suscitò
così tanto entusiasmo che fu replicato per ben 110 sere di fila.
Anche Cimarosa appoggiò la repubblica napoletana
come Paisiello, ma lui ne scrisse addirittura l’inno, cosa che gli valse, da
parte del vendicativo Re Ferdinando, la condanna a morte.
La pena, grazie
all'intercessione di alcuni suoi influenti ammiratori fu commutata in esilio.
Si ritirò a Venezia, dove, l’11 gennaio 1801 morì
improvvisamente di gastrite a soli 52 anni, sollevando inevitabili voci su un possibile
avvelenamento da parte di emissari della monarchia napoletana. Pare invece si sia
trattato, molto più prosaicamente, di tifo fulminante dovuto ad una
scorpacciata di cozze. mercoledì 1 maggio 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIV, Paisiello
Giovanni Paisiello, pugliese di Roccaforzata,
nasce il 12 maggio 1740.
Studia a Napoli
Conservatorio di S. Onofrio con Durante. L’idolo cinese, opera comica in napoletano su libretto di Lorenzi, suo secondo lavoro,
conquista nientemeno che Re Ferdinando e lo rende immediatamente famoso.
Un inizio di carriera
così avrebbe fatto la felicità di qualsiasi musicista, invece Paisiello fu,
immotivatamente, roso per tutta la vita da profonde invidie per i colleghi e
rancorosi sospetti di congiure ai suoi danni. Quello che considerò sempre e
unilateralmente acerrimo rivale fu il conterraneo Domenico Cimarosa, di cui
tratteremo presto.
La sua fama di autore
comico giunge a Mosca, dove, nel 1776 Caterina II gli offre la carica di
maestro di cappella per tre anni, che saranno poi prolungati di altri quattro.
Lì metterà in scena i
suoi capolavori, La serva padrona,
che ricordiamo già musicata da Pergolesi e Il
barbiere di Siviglia, che raggiunse subito grande fama a livello europeo.
Vale la pena ricordare che, quando Rossini musicò lo stesso libretto con il
titolo di Almaviva,
venne sonoramente fischiato. Ai giorni nostri, con il titolo ritornato Il barbiere di Siviglia, l’opera
rossiniana è la più rappresentata al mondo, mentre quella di Paisiello è caduta
nel dimenticatoio, curiosa nemesi per chi aveva tentato di oscurare Pergolesi
rifacendo la sua opera più famosa.
Nel 1783 torna a Napoli
ed è dalla parte degli insorti della Repubblica napoletana di Pasquale Baffi e
Francesco Caracciolo. E’ una delle rivoluzioni più atipiche della storia, la
fanno i nobili, e sembra quasi un ossimoro; infatti la repubblica dura solo 5
mesi: a luglio, con l’appoggio della flotta di Nelson e senza l’intervento sperato
dei francesi a fianco degli insorti, Ferdinando IV riprende la città. La restaurazione
è feroce. 124 rivoluzionari, tutti membri delle migliori famiglie partenopee,
sono condannati a morte per impiccagione, tra di loro Eleonora Pimmental
Fonseca, a cui Enzo Striano dedicherà lo splendido romanzo Il resto di
niente.
Paisiello se la cava con
l’esilio e riesce a raggiungere Parigi, dove comporrà ancora, godendo della
protezione nientemeno che di Napoleone, di cui si era conquistato i favori 5
anni prima con una marcia funebre composta per la morte del generale Hoche. Il
pubblico di Parigi non lo apprezzò mai, tanto che, amareggiato e con gravi
problemi di saluti, rientrò a Napoli dove morì il 5 giugno 1816.
Lasciò complessivamente 100 opere, tra cui spiccano
La molinara e Nina, pazza per amore, tratta dalla “Comedie Larmoyante”
dal francese Messolier de Vivetieres, tuttora in repertorio nei teatri di tutto
il mondo.martedì 30 aprile 2013
Piccola storia del Melodramma: intermezzo con i coniugi Hasse
Abbiamo incontrato,
trattando di Gluck, il suo amico e mentore
Johan Adolf Hasse, che,
malgrado fosse tedesco di nascita, fu senz’altro ascrivibile alla scuola
napoletana, avendo studiato con Porpora e con Scarlatti. Divenne in Europa un grande
vessillo dell’Opera italiana con un’autentica venerazione per Metastasio di cui
musicò tutti i melodrammi.
Sposò
la cantante
Faustina Bordoni, che passò alla storia della musica lirica,
oltre che per la voce, per una spettacolare rissa con la rivale Francesca Cuzzoni.
Avvenne
a Londra il 6 giugno 1727. Durante una replica di Astianatte di Ariosti,
alla presenza della Principessa di Galles Carolina di Ansbach, quando la
Bordoni iniziò a cantare, gli ammiratori della Cuzzoni si scatenarono con
fischi e canzonature. Scoppiò una rissa generale e le stesse due cantanti, sul
palco, arrivarono a scagliarsi l'una contro l'altra, prendendosi a schiaffi,
tirandosi i capelli e insultandosi in italiano davanto a un pubblico inglese in
delirio, al grido di "troia" e "puttana”, come riportato
testualmente dal Daily Courent.
L'episodio divenne subito celeberrimo e venne
parodiato l’anno dopo da John Gay nella sua The Beggar's Opera, musicata
da Cristoph Pepush.
lunedì 29 aprile 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIII, Gluck
Abbiamo visto come nella
prima perte del XVIII secolo l’Opera italiana si sia diffusa capillarmente in
tutta Europa dove praticamente non c’è corte che non abbia un Kappelmeister o
un direttore artistico italiano, proveniente quasi sempre da Conservatori napoletani.
A metà del settecento
inizia una decadenza artistica della lirica italiana che è quasi inversamente proporzionale alla sua
diffusione sul continente. Tutto nasce dal fatto che il pubblico, agli inizi,
apprezzava soprettutto la bellezza melodica e il virtuosismo canoro e così la
maggior parte dei compositori ridussero progressivamente i libretti ad una
serie slegata di esecuzioni, di frettolosi recitativi e di arie ormai ricche
solo di inutili vocalizzi, penalizzando l’azione drammatica, la verosimoglianza
della vicenda e l’aderenza della musica al testo.
Gli impresari ci
aggiunsero del loro, smontando e rimontando le opere, aggiungendo balletti e
intermezzi a profusione e sfruttando il virtuosismo dei castrati solo per attirare
il pubblico a teatro, dove, val la pena ricordarlo, si entrava verso le cinque
e si usciva dopo mezzanotte, sfruttando il ristorante e il casinò annesso alla
sala.
A metà del secolo anche
il pubblico, ormai abituato ai castrati e agli effetti circensi, volta le
spalle a questo tipo di spettacolo. Si impone un cambiamento, invocato da quasi
tutti gli uomini di cultura europei: la cosiddetta riforma del melodramma è
alle porte e il riformatore si chiama Christoph Willibald Gluck, noto in Italia
soprattutto per figurare nel titolo di una canzone di Celentano.
Gluck è tedesco di Erasbach,
dove nasce il 2 luglio del 1714.
Figlio di un funzionario
statale deve letteralmente scappare di casa per seguire la strada di musicista.
Si stabilisce a Praga
dove conosce Johan Adolf Hasse,
compositore tedesco ma allievo di Porpora a Napoli, ne diventa amico e, con
lui, gira l’Europa, stabilendosi prima a Parigi e poi a Milano dove studia con il maestro Sammartini che gli da
modo di approfondire tutti i generi operistici.
Il suo Artaserse, su libretto di Metastasio, debutta
il 26 dicembre 1741 al Regio Ducal Teatro di Milano con ottimo successo.
Nel 1752 si stabilisce
Vienna come Kappelmeister di un importante orchestra e conosce il livornese
Ranieri de Calzabigi, con cui attua la famosa riforma: il manifesto dell’opera
riformata è Orfeo e Euridice del 1762. In tutto saranno 45
le sue opere, 13 delle quali dopo l’Orfeo,
che, per diffondere la sua nuova idea musicale, portò a Parigi e in Italia
riscuotendo consensi unanimi ed entusiastici emulatori.
Lo scopo della riforma è
tornare a rendere il melodramma un’autentica rappresentazione teatrale nello
spirito aristotelico dell’unità di tempo e di luogo. Elementi fondamentali
sono:
1.
La sinfonia
d’apertura, che non è più un generico segnale d’inizio, ma deve calare lo
spettatore nell’atmosfera della vicenda che va a cominciare.
2.
Le arie
diventano di forma libera e con abolizione del tedioso “da-capo”.
3.
Il recitativo
è solo obbligato, cioè accompagnato da tutta l’orchestra, e, scriverà lui
stesso: “bisogna drammatizzare le arie e melodizzare i recitativi”
4.
Coro e
balletti sì, ma solo se funzionali alla trama
5.
L’organico
d’orchestra è allargato a 50 elementi tra fiati, archi e percussioni.
Anche i registri vocali
vengono, per la prima volta, messi in discussione. I ruoli principali maschili,
perseguendo l’ideale della monodia, erano stati sempre assegnati a registri
innaturalmente alti: soprano, contralto, contraltino, falsettone. Per giunta l’esigenza
di una recitazione verosimile contrastava pure con la fine dell’epoca dei
castrati, costringendo ai ruoli da protagonista maschile soprani “en travesti”.
Pensiamo all’effetto estraniante di un Giulio Cesare donna. Ci vorrà ancora
quasi un secolo perché la situazione si normalizzi, già Mozart, però, darà a
due virilissimi baritoni i ruoli da protagonista e spalla in Don Juan. Gluck muore
a Vienna il 15 Novembre 1787.
domenica 28 aprile 2013
Piccola storia del Melodramma: Capitolo XII, Il Caro Sassone
L’alfiere del
melodramma italiano in Inghilterra fu un tedesco.
Sembra l’inizio di
quelle barzellette multietniche ed è invece la pura realtà e quel tedesco si
chiamava Georg Friedrich Händel.
Nato a Halle sul Saale in Sassonia il 23 febbraio 1685 era
il figlio di un barbiere che lo avrebbe voluto avvocato. Avviato invece allo
studio dell’organo diventò il pupillo del compositore Johan Mattheson che lo
volle ad Amburgo.
Nel 1705 compone la
sua prima opera Almira e su invito di Ferdinando de Medici visita per la
prima volta l’Italia dove tra Firenze, Roma, Napoli e Venezia vanno in scena
con grande successo le sue opere, tanto da meritargli il soprannome di “Caro
Sassone”.
I suoi maestri riconosciuti sono Scarlatti, con cui rimase
celebre una disfida all’organo, Corelli e Marcello.
Dal 1710 è Direttore musicale ad Hannover, dall’anno dopo
la scelta di vita di trasferirsi a Londra definitivamente. Sarà tra i fondatori
della Royal Academy of Music.
Avrà la carica di Maestro di Cappella Reale sotto ben tre sovrani Anna
Stuart, Giorgio I Hannover e Giorgio II e la sua carriera conterà alla fine una
mole di lavori imponente: 42 opere tutte con libretto in italiano tra cui
spiccano Rinaldo e Giulio Cesare, 110 cantate, 20 concerti,
39 fra sonate, fughe e suite per cembalo e 12 Concerti Grossi.
Curiosa sventura lo accomunò al coetaneo Bach: entrambi
soffrirono in vecchiaia di disturbi agli occhi e ambedue si rivolsero a un
medico (?) inglese, tale John Taylor che li operò, di fatto accecandoli
definitivamente. Händel si
spense a Londra all’età di 74 anni.
Curiosità: Handel ebbe il privilegio di essere il primo compositore
trasmesso via radio nella storia. Fu la vigilia di Natale del 1906 quando
durante la messa in onda della prima trasmissione radiofonica di sempre da
Brant Rock nel Massachussetts, fu mandato in onda il celeberrimo
"Largo" dal Serse.
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