mercoledì 7 agosto 2013

Quando ti dicono: "Dimmi un po', a te che piace l'Opera...


Mi sto rendendo conto in questi giorni che, quando si parla con chi ha poca dimestichezza con l’Opera lirica, della gestione dei teatri a questa dedicati, si viene trattati come eccentrici che chiedano soldi per soddisfare i propri capricci a spese della collettività. Ormai quasi tutti hanno compreso che l’opera è uno spettacolo costoso che non si mantiene con gli incassi in nessuna parte del mondo. Ai più sfugge che in analoga situazione ci sono quasi tutti i Musei e le Biblioteche, ad esempio, ma nessuno, giustamente, ne chiede la chiusura né la trasformazione in parcheggi, ipotesi che invece “tira” molto quando si tratta di teatri d’Opera. La soluzione che il profano, una volta convintosi, seppur a malincuore, della necessità di mantenere aperti questi centri di eccellenza artistica italiana (che lui più sinteticamente tende a definire “baracconi”), propugna per prima è quella del taglio dei costi, partendo dal principale, quello del personale. Qui, sembra impossibile, ma bisogna fargli capire che, se il repertorio è quello, i musicisti per suonarlo e cantarlo servono tutti. Generalmente aiuta a convincere l’interlocutore scettico qualche esempio al limite dell’idiota, tipo, “hai mai pensato di risparmiare comprando solo una scarpa sinistra?”. Ammesso che si convinca sui musicisti, il procedimento va ripetuto con gli impiegati e le maestranze tecniche, magari ricordandogli che in scena si va se c’è qualcuno che alza il sipario, illumina il palcoscenico, cambia le scene, prenota i posti, riscalda o raffredda gli ambienti, fa manutenzione, fa programmazione, informa la gente… Insomma fa quelle cose che servono a tutte le aziende normali per funzionare. La parolina magica è questa: funzionare. Perché chi non conosce il teatro, nello specifico il nostro Carlo Felice, non sa che quando tutto funziona, col personale necessario che fa il lavoro per cui è pagato, succede persino che la sala si riempia e non solo con i titoli di tradizione. Senza andare troppo indietro nel tempo, nel 2000 un’Opera del ‘900 obiettivamente difficile come Morte a Venezia di Britten vinse il Premio Abbiati (che è quello della critica specializzata, mica balle) ed ebbe tanto successo da essere comprato da Firenze e Venezia (a Venezia hanno anche prodotto il DVD perché sono più furbi, evidentemente, visto che l’allestimento di Pizzi era nostro). Nel 2007 ricordo lo splendido Giulio Cesare di Hendel, sulla carta un opera ostica dei primi del ‘700, che riscosse un successo insospettato quanto strepitoso di pubblico e di critica, mentre la scorsa stagione, per tornare al contemporaneo, male ha fatto che si è persa la spettacolare lettura di Gershwin fatta dalla nostra orchestra sotto la direzione di quel grande genio musicale di Wayne Marshall, che ha coinvolto la sala come non ricordavo da anni. Se queste cose la cosiddetta “gente comune” (ma pure qualche addetto ai lavori…) le conoscesse meglio, capirebbe che quando lo spettacolo è di qualità e la gente si diverte e il passa parola riempie la sala, la Musica non necessita più dell’elemosina di chi “lavora sul serio”, la Musica può e deve attrarre sponsor dall’Italia e dall’estero senza vergogna e rimettere insieme quel volano produttivo e virtuoso che è nato in Italia, per giunta, ed è la forma più spettacolare di Cultura, quella del Melodramma. La nostra Cultura.

venerdì 26 luglio 2013

A proposito del Carlo Felice...

In questi giorni si stanno versando i proverbiali fiumi d’inchistro a proposito delle Fondazioni Liriche italiane. Alla fine, in buona sostanza, tutto il problema si riassume in questa grande semplificazione: l’Opera Lirica costa tanto e il pubblico pagante non riesce a coprirne i costi, in questo periodo i soldi scarseggiano, per cui, piuttosto che tenere in vita a botte di milioni di denaro pubblico uno spettacolo che interessa a pochi, abbandoniamo i teatri al loro destino e impieghiamo le risosrse finanziarie dove servono di più.
Messa così sembra difficile anche solo continuare a parlarne.
E invece mi permetto di gettare nel fiume d’inchiostro di cui sopra anche un paio di gocce mie, giuro, non di più.
Quando un’azienda qualsiasi va male, due sono i rimedi, in economia, per provare a risanarla: abbassare le uscite e aumentare le entrate. Attenzione non basta applicare uno solo dei due rimedi, perché se diminuisco solo i costi, inevitabilmente arriverò a un punto in cui comprometterò la funzionalità operativa dell’azienda. Vanno sicuramente eliminati gli sprechi e razionalizzate le spese ma la parola “taglio”, così di moda, in assoluto, non vuol dire niente e non ha un’accezione positiva nemmeno nella lingua italiana.
Allora concentriamoci sull’aumento delle entrate. Premessa necessaria: non esistono al mondo fondazioni liriche che possano fare a meno di contributi “esterni”, per altro previsti nella forma pubblica dalla legge italiana che, è bene ricordarlo, li prevede anche per l’editoria, il cinema, i famigerati partiti politici, le televisioni, e le associazioni culturali, suscitando curiosamente meno sdegno.
Certo, l’ideale sarebbe ridurre al minimo le risorse provenienti dalle tasse dei cittadini e aumentare invece le sponsorizzazioni private. Per far questo sono però indispensabili due precondizioni: la detraibilità della sponsorizzazione (come avviene in maniera totale negli Stati Uniti, ad esempio) e l’ampliamento dell’offerta musicale, sia come numero di rappresentazioni che come varietà di generi.
Giova ricordare come, negli anni ’60, periodo d’oro del cinema di qualità italiano, i grandi film d’arte, tipo Gattopardo o Otto e mezzo, potevano essere realizzati grazie al denaro che i produttori reperivano con i cosiddetti musicarelli, autentici abbomini cinematografici con protagonisti cantanti di grido tipo Rita Pavone o Gianni Morandi, che, però, costavano poco e incassavano moltissimo.
Ovviamente nessuno pensa di utilizzare il Carlo Felice come un palco da feste di piazza, ma dare la possibilità al Jazz o ad una musica leggera di qualità di trovare spazi adeguati e remunerativi nel teatro rappresenta sicuaramente un’opportunità di accesso ad un nuovo tipo di pubblico con conseguente apporto di nuova liquidità.
Ripensare la struttura come una casa della Musica, con ristorante e negozi “in tema” è così assurdo? Perché i centri di aggregazione giovanile devono restare i famigerati “Centri commerciali”? Abbattere la barriera di soggezione che il teatro mette addosso a chi non l’ha mai frequentato dovrebbe essere una delle prime missioni per chi guida una macchina culturale con la sede nel centro della città.
Gli sponsor privati si attirano con un’offerta che deve rispondere a criteri di qualità artistica (e come orchestra e coro siamo per giunta tra quelli messi meglio in Italia, non lo dico io ma famosi direttori d’orchestra) ma anche di numero di spettatori raggiunti e di eventi realizzati così da innescare il famoso volano positivo che permetta di dipendere meno dai soldi pubblici (e conseguentemente pure dai politici) e valorizzare degnamente la Lirica, che, giova ricordarlo, è la grandissima Eccellenza Tutta Italiana (da Monteverdi in poi).
Naturalmente non esiste una bacchetta magica per risolvere i problemi all’istante ma, tra guardare solo a un metro dal prorpio naso, pur se pagare stipendi e fornitori rimane una drammatica necessità, e abbandonarsi a sogni di gloria effimeri c’è sicuramente la famosa via di mezzo, forse anche più praticabile di quanto non sembri. Servono competenza, decisione e un pizzico di coraggio. E, possibilmente, provare a remare tutti (CDA, lavoratori, media e cittadinanza) nella stessa direzione: il Carlo Felice in crisi è lo specchio di una città in crisi, una sconfitta per tutti.

lunedì 27 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XXII, Bellini

Vincenzo Bellini nasce a Catania nel 1801 in un famiglia di musicisti che lo mandò presto a studiare nella città della musica: Napoli. Bellini era un ragazzo di grande avvenenza fisica ma irascibile e permaloso ma essendo anche dotato di una musicalità eccezionale riuscì comunque ad imporsi nel panorama artistico partenopeo a dispetto del carattere. La sua carriera è fulminea, a 25 anni con Bianca e Gernando conquista il pubblico del San Carlo e Domenico Barbaja lo giudica pronto per Milano. Tra Milano e Venezia mieterà un successo dietro l’altro con La straniera, I Capuleti e i Montecchi, La sonnambula e Norma, tutti su libretti di Felice Romani. A trent’anni potrebbe essere un uomo realizzato e felice se non fosse per un grande cruccio: i successi di Gaetano Donizzetti, per i quali soffre moltissimo. Tra l’altro Donizzetti è già stato chiamato a Parigi e Bellini insiste tanto con Rossini per essere invitato anche lui al Theatre des Italiennes che il buon Gioachino acconsente. E, in realtà, fa benissimo, perché I Puritani è un successo clamoroso. Bellini è l’uomo del giorno, Parigi è ai suoi piedi, si attende la nuova Opera con ansia. E qui arriva il mistero della tragica fine. Subito dopo il succeso dei Puritani, Bellini ha preso a frequentare una coppia: lui è un sedicente banchiere, forse ebreo, che si fa chiamare Samuel Lewis, lei, la moglie, è una donna bellissima, molto più giovane del marito. Bellini va ad abitare nella loro villa di Puteaux e non dà più notizie di sé, quasi fosse sequestrato. In città si spargono notizie allarmanti, pare sia stato ferito in un duello, forse è fuggito in Italia con la signora Lewis. Rossini, che si sente responsabile del giovane, va a cercarlo alla villa e lì, il 23 settembre del 1835 lo trova morto in un letto. Dei coniugi Lewis nessuna traccia, e nemmeno del denaro che Bellini doveva avere con sé. Rossini chiede l’autopsia che però non viene concessa, la salma viene inumata nel cimitero Père Lachaise di Parigi da dove, 40 anni dopo, sarà traslata nel Duomo di Catania. Il mistero della morte di Bellini rimane insoluto. Quando la notizia della scomparsa del musicista si sparge, Getano Donizetti, che invece non si è mai considerato rivale di Bellini, scriverà per lui una splendida Messa da Requiem. Bellini, muore a 34 anni lasciandoci 11 opere e il rimpianto per quello che ancora avrebbe potuto fare.

sabato 25 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XXI, Donizetti


Nel 1822 Domenico Barbaja, il responsabile del teatro San Carlo di Napoli (oggi diremmo il Sovrintendente) è nei guai. L’amico fraterno Rossini lo ha lasciato senza compositore principale e senza fidanzata in un sol colpo, fuggendo a Parigi con Isabella Colbran. Passi la fidanzata ma il compositore serve subito. I suoi osservatori lo informano su un ragazzo che sta riscuotendo grande successo a Venezia, un tal Gaetano Donizetti. Le informazioni sono devvero ottime: il giovanotto è di Bergamo, è nato in una famiglia poverissima e ha studiato musica grazie al parroco perciò verosimilmente costa poco. Per giunta ha ritmi di composizione altissimi ma non a scapito della qualità. Barbaja lo convoca e lo mette sotto contratto. Probabilmente nemmeno lo scafato impresario sospetta il reale valore di questo ragazzo altissimo, magro e taciturno, rispettoso e gentile con tutti che nel giro di pochi anni (e in presenza di un concorrente come Bellini) si imporrà sulla scena operistica italiana.
Nel giro di 16 anni Donizetti arriva a scrivere la bellezza di 40 opere, invero non tutte memorabili, tanto che una critica malevola gli affibierà il soprannome di Dozzinetti. A smentire le malelingue basterebbe solo ricordare che al periodo napoletano appartengono Anna Bolena (la prima vera opera romantica dell’ottocento), La donna del lago, L’elisir d’amore e Lucia di Lammermoor. Il 1838 è per Donizetti, che ha 41 anni, un annus horribilis, perde in un’epidemia di colera sia la giovane moglie che i due figli e, come se non bastasse, la censura gli boccia Il Poliuto e gli viene preferito Saverio Mercadante per il ruolo di direttore del Coservatorio.
Come Rossini prima di lui, anche Gaetano Donizetti abbandona Barbaja e Napoli, e, proprio su invito di Don Gioachino, si trasferisce a Parigi dove trionfa con i capolavori della maturità: La figlia del regimento, La favorita e Don Pasquale. Nel 1845 si manifestano i primi sintomi di follia che si scoprirà dipendere dalla sifilide. Ricoverato per tre lunghi anni nel manicomio d'Ivry-sur-Seine, ne uscirà solo per esser portato a morire nella sua Bergamo nel marzo del 1848: si spegnerà lì l’otto di aprile a soli 51 anni.

Donizetti ci ha lasciato in totale 65 opere complete, la più rappresentata è il Don Pasquale, da cui è tratto il filmato qui sotto. L’inizio dell’aria, affidato in maniera inconsueta ad un malinconicissimo assolo di tromba, ispirò, per sua stessa ammissione, a Nino Rota il tema del Padrino II con cui vinse l’Oscar.
Altro che Dozzinetti…


mercoledì 22 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XX, Rossini


Se mi chiedessero di cambiare la mia vita con quella di un musicista a piacere non avrei dubbi, sceglierei Gioachino Rossini. Visse per 76 intensissimi anni concedendosi tutto quello che desiderava. Nasce a Pesaro in una famiglia modesta ma non povera. Esordisce a Venezia con l’opera buffa La cambiale di matrimonio che ne sancisce l’immediato successo. Si mette in luce, oltre che per la precocità del genio, soprattutto per la folgorante prolificità, mettendo in scena 14 opere in soli 4 anni!! Il Turco in Italia conquista l’impresario scaligero Domenico Barbaja, che lo vuole con sé come autore principale a Napoli, dove è stato chiamato a dirigere il San Carlo.
Dal 1815 al 1822 è proprio a Napoli (con qualche escursione a Roma) che compone i suoi lavori più famosi, giusto per citarne qualcuno, sono di questo periodo Il barbiere di Siviglia, La gazza ladra e La donna del lago.
Ha trent’anni ed è ricchissimo e realizzato quando si innamora della donna di Barbaja, la (pare) bellissima Isabella Colbran, di 7 anni più anziana di lui, e scappa con lei a Parigi. Prima di lasciare definitivamente l’Italia, trova tempo ancora per mettere in scena a Venezia la colossale Semiramide.
Dal 1824 si stabilisce a Parigi dove è accolto come un idolo. In 5 anni mette in scena altrettante opere, l’ultima delle quali è il celeberrimo Guglielmo Tell.
E’ il 1839, Rossini ha 37 anni e, misteriosamente, decide di abbandonare l’opera lirica, il Tell resterà l’ultima.
Per altri 29 anni si dedicherà all’altra sua grande passione: la cucina, oltre a dirigere il Theatre des italiennes in cui inviterà i grandi musicisti italiani come Donizetti e Bellini. Scriverà ancora musica non operistica, quelli che chiamerà i suoi “peccati di vecchiaia” tra cui spiccheranno lo Stabat Mater e la Petite Messe Solemnelle.
Morirà di cancro nella sua sfarzosa villa di Passy il 13 novembre 1868 assistito dalla seconda moglie Olympe Pélissier, sposata dopo la morte della Colbran nel ’46. Per anni si è vulgata una leggenda che voleva Mozart aver inscenato la propria morte per sfuggire ai creditori ed esser poi stato il Gohst Writer di Rossini fino alla vera morte nel 1823 (avrebbe avuto 64 anni), spiegando così l’improvvisa crisi operistica di Rossini. Storia suggestiva ma, ahimé, completamente falsa.


martedì 21 maggio 2013

Una chiacchierata con Fabio Luisi e Mariella Devia

In occasione della Traviata andata in scena sabato 18 maggio al Carlo felice di Genova, ho avuto occasione di intervistare, per lo Streaming del teatro, il direttore Fabio Luisi e la protagonista Mariella Devia. Entrambi liguri, entrambi celebri, entrambi innamorati del loro lavoro. Luisi, direttore principale del Metropolitan di New York, è l'astro nascente tra i direttori italiani. Mariella Devia è forse il soprano italiano più celebre al mondo. Per un amante della lirica poter scambiare due chiacchiere con simili personaggi non è evento di tutti i giorni...









martedì 14 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: una piccola pausa prima dell'800

Con la fine del settecento l’Opera Lirica si è divisa in troppi rivoli per poterne seguire la storia linearmente rispettandone la cronologia. Troppi eventi sono simultanei in posti troppo distanti tra loro. Per fortuna, essendo all’epoca la famosa globalizzazione ancora di là da venire, le influenze degli autori sugli altri non erano così forti e immediate come oggi, ragione per cui ho deciso unilateralmente di trattare il prosieguo della nostra piccola storia per aree geografiche. Il piano dell’opera proseguirà quindi con l’Italia dove, schematicamente, troveremo una bella serie di colossi, nell’ordine:
Rossini
Donizetti e Bellini
Verdi
Mascagni, Leoncavallo e Catalani
Puccini

Di quel che succederà in Francia, Germania, Russia e centro Europa parleremo al momento opportuno.
Alla prossima puntata con il genio di Gioachino Rossini, allora.



mercoledì 8 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIX, Salieri

La presunta rivalità con Mozart ha compromesso quasi definitivamente la fama di un grande musicista italiano: Antonio Salieri.

Nato a Legnago nel 1750, trascorse la maggior parte della sua vita alla corte imperiale asburgica di Vienna per la quale fu compositore e Maestro di cappella.
Musicista dotato di eccezionale talento e ottimo insegnante, fu maestro, tra gli altri, di Beethoven, Schubert e Liszt.
Europa riconosciuta, commissionatagli dall'imperatrice Maria Teresa d'Austria innaugurò, il 3 agosto del 1778, il Nuovo Regio Ducal Teatro, cioè l'attuale Scala, fatto erigere a Milano e la medesima opera ha salutato, per volere di Riccardo Muti, il 7 dicembre 2004 la riapertura del teatro scaligero dopo il lungo lavoro di restauro.
Alla sua morte lasciò in tutto 39 Opere, tra cui spiccano La grotta di Trofonio, Falstaff, Le Danaidi e Tarare.
A proposito della leggenda che nel corso dei decenni nacque e si diffuse, secondo la quale Mozart sarebbe stato avvelenato, per gelosia, da Salieri, è ormai assodato essere priva di qualsiasi fondamento.
Il poeta e scrittore russo Aleksandr Sergeevič Puškin, però, credette a queste voci, e nel 1830 scrisse la piece Mozart e Salieri che Nikolaj Rimskij-Korsakov musicò nel 1898. Buoni ultimi a perpetrare la trama calunniosa che renderà Salieri ingiustamente simbolo eterno di mediocrità, saranno il commediografo inglese Peter Shaffer e il regista Miloš Forman che nel 1984 trarrà dall’omonimo lavoro teatrale il film  Amadeus.
 
Se Salieri non ha ucciso Mozart, di sicuro Puškin ha ucciso Salieri.

martedì 7 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XVIII, Lorenzo Da Ponte

Lorenzo da Ponte, il librettista del trittico italiano di Mozart, ha avuto una vita che meriterebbe un film. Nasce in una famiglia ebrea, figlio di Geremia Conegliano e Ghella Pincherle. Nel 1763 il padre, rimasto vedovo e desideroso di sposare una giovane cristiana, fa convertire tutta la famiglia, che prende il nuovo cognome da quello del vescovo che li battezza, Monsignor Da Ponte.
Dopo la morte del vescovo, nel 1768, lascia il seminario di Ceneda per quello di Portogruaro, dove viene ordinato sacerdote nel marzo 1773.
Subito dopo si trasferisce a Venezia, dove però si dimostra libertino e spregiudicato, frequentando addirittura Giacomo Casanova, e il 17 dicembre 1779 viene bandito per 15 anni dalla Repubblica di Venezia.
Si trasferisce a Dresda, dove il "poeta della corte sassone" Caterino Mazzolà, che più tardi lavorerà con Mozart alla Clemenza di Tito, lo inizia alla sua nuova attività di poeta e librettista.
Giunto a Vienna nel 1781, per interessamento di Antonio Salieri, diventa Poeta di Corte dell'imperatore Giuseppe II. Va ricordato che, in quegli anni, era quasi d'obbligo che le opere avessero il libretto in italiano. Da Ponte si dimostra una macchina da lavoro in grado di sfornare per i musicisti più in voga come Salieri e Joseph Weigl, una quarantina di libretti di successo in italiano, ma anche in francese e in tedesco.
È di questi anni la collaborazione con Mozart per la creazione dei tre capolavori italiani.
Dopo la morte di Giuseppe II, nel 1790, Da Ponte cade, come l’amico Mozart,  in disgrazia presso la Corte e nel 1791 è costretto a lasciare Vienna.
Si dirige inizialmente a Praga, dove ritrova il vecchio amico Giacomo Casanova e poi nuovamente a Dresda.
Dall'autunno 1792 all’estate del 1805 vive a Londra dove scrive libretti per una compagnia operistica italiana e fa per dieci stagioni, dal1794 al 1804, l'impresario del King's Theatre, allestendo 28 prime; si sposa in quel periodo con Nancy Grahl, di 20 anni più giovane.
L'attività di impresario si risolve in un disastro finanziario che Da Ponte addebiterà, nelle sue memorie, al socio in affari Taylor. In ogni caso il precipitare degli eventi lo induce a lasciare il paese per trasferirsi addirittura negli Stati Uniti, seguito in breve dalla famiglia.
Inutile notare come nel selvaggio West ci sia scarsa necessità di librettisti. Inizialmente si stabilisce a New York, per trasferirsi poi a Filadelfia dove apre un poco artistico negozio di ferramenta.
Dopo 10 anni, nel 1820 arriva a New York in tourné la compagnia di Manuel Garcia, e con lui la figlia Maria Malibran, la più grande cantante lirica del momento. Da Ponte li va a trovare in hotel e si fa riconoscere: ha 71 anni e in Europa nessuno ne ha mai più sentito parlare, la Malibran è commossa: può abbracciare il librettista di Mozart!
I giornali lo celebrano, si trasferisce a New York e qui apre una più onorevole  libreria e si dedica all'insegnamento della lingua e della letteratura italiana, fino a divenire, nel 1825, il primo professore di letteratura italiana nella storia del Columbia College (oggi Columbia University) a Manhattan.
Sempre nel 1825 organizza la prima americana del Don Giovanni e da quel momento cerca, invero con scarso successo, di promuovere la costituzione di un primo teatro operistico americano, allestendo anche una tourné della nipote Giulia Da Ponte, in cui vengono per la prima volta in America, proposte le musiche di Gioacchino Rossini.
Dal 1823 al 1827 pubblica le sue Memorie in tre volumi; una loro stesura definitiva viene redatta dal 1829 al 1830. Nel 1828, a 79 anni di età, viene naturalizzato cittadino degli Stati Uniti d'America.
Muore il primo agosto 1838 a 89 anni e, come per l’amico Mozart, anche il suo luogo di sepoltura non ci è noto: sepolti nel vecchio cimitero cattolico di Manhattan, dietro la Old Saint Patrick's Cathedral di Mulberry Street, i suoi resti si mescolarono a quelli di altri quando, nel 1848, le salme furono traslate nel nuovo cimitero del Calvario a Queens, dove oggi lo ricorda un cenotafio.

domenica 5 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XVII, Mozart, parte II


La svolta artistica e di vita di Amadé Mozart avviene tra il 29 novembre 1780 e il 29 gennaio 1781.

Il 29 novembre 1780 muore Maria Teresa d’Austria e sale al trono di Vienna l’Arciduca d’Austria Giuseppe II, grande appassionato d’opera.
Il 29 gennaio 1781 va in scena a Monaco l’Idomeneo re di Creta su libretto di Varesco che riscuote un successo formidabile e meritato. Quest’opera sparirà dal repertorio, oscurata dai successi viennesi, e sarà ripescata solo negli anni ottanta del novecento. Nel 2005 Muti la proporrà cose opera di apertura della stagione alla Scala.

Sull’onda del successo di Monaco, Mozart è invitato a scrivere un’Opera per la corte di Vienna: è il momento che aspettava da tutta la vita. Decide di trasferirsi a Vienna malgrado il padre lo metta in guardia dalle insidie della vita di corte e, almeno in questo caso, Leopold non ha tutti i torti. Giuseppe II è circondato da italiani, custodi musicali dell’ortodossia dell’Opera: Antonio Salieri è il compositore di corte, il conte Rosemberg Orsini il potentissimo direttore dei teatri imperiali con diritto di censura su tutti i lavori.

Diciamo che il giovane Amadé non fa nulla per conquistarsi la benevolenza dei potenti italiani: propone un opera in tedesco invece che in italiano, un Singspiel (opera con parti recitate a mo’ di Opera Comique francese) in tre atti tratto da Christoph Friedrich Bretzner: Die Entführung aus dem Serail (Il ratto dal serraglio). L’adattamento del libretto è affidato al giovane e bravo Gottlieb Stephanie, al quale Mozart impone numerose e sostanziali modifiche, soprattutto nel finale, un po’ ruffiano, in cui il Sultano perdona magnanimamente i protagonisti come un moderno monarca illuminato quale, ad esempio, Giuseppe II.

La proposta suscita più di una reazione, una vicenda ambientata in Turchia, in un harem e, per di più, con elementi da opera buffa italiana non pare degna di essere rappresentata in un teatro di corte, dove Rosemberg Orsini fa applicare rigidamente la selezione scarlattiana delle Opere Serie.

Mozart ha però dalla sue l’Imperatore in persona, che prova gtande simpatia per il musicista di Salisburgo e, il 30 luglio 1781, l’opera va in scena.
E’ un successo straordinario: solo nel 1782 venne rappresentata 15 volte, l'anno seguente ci furono rappresentazioni in quasi tutte le città  d’Europa.

Da questo momento si dipanano due vicende distinte, quella della parabola artistica luminosa di Mozart, che toccherà il suo culmine con le tre opere italiane in collaborazione con Lorenzo da Ponte e quella della spirale discendente della sua esistenza terrena che lo porterà alla miseria e alla morte nel giro di 10 anni.

Sull’onda del successo Mozart da una svolta alla sua vita. Alla fine dell’82 si sposa con Costanza Weber, sorella minore di una sua antica fiamma. Il padre Leopold non è d’accordo ma questo rafforza ancor più il proposito di Amadeus che si sente ormai affrancato dalla figura che lo ha oppresso per tutta la vita. Con la moglie inizia a frequentare la vita mondana di Vienna, il che lo porta a spendere ben più di quel che guadagna e ad indebitarsi. L’attivita compositiva non può che soffrire di questa sua nuova vita dissipata e nel 1783 lascia incompiuto un progetto L’oca del Cairo su libretto di Varesco per dedicarsi allo Sposo deluso, che sarà comunque lasciata a metà, ma che segna la prima collaborazione con Lorenzo da Ponte, compagno di bagordi ma anche scrittore formidabile. In realtà i due cominciano a lavorare alle Nozze di Figaro intravedendo le potenzialità del testo di Beaumarchais.

Il 1786 si apre con la visita a Vienna della sorella dell’imperatore Maria Cristina con il marito Duca di Sassonia e per festeggiarli si allestiscono, nell’orangerie di Schonbrunn due palchi per due opere con tema il teatro nel teatro, sul primo palco Salieri presenta in italiano Prima la musica, poi le parole su libretto di G.B. Casti, sul secondo Mozart allestisce Der Schauspieldirektor (l’impresario teatrale) atto unico su libretto del fido Stephanie, poco significativo nel suo panorama operistico.

E poi fu il travolgente finale di partita.
Dal 1787 al 1790 irrompe con la violenza di un uragano sulla scena europea la “trilogia italiana” con Da Ponte: Le nozze di Figaro, Don Giovanni, Così fan tutte; tre opere che anticipano di mezzo secolo la grande tradizione operistica ottocentesca.

Nel 1890 muore Giuseppe II, suo protettore. Gli succede il fratello minore Leopoldo II e per la sua incoronazione Mozart realizza La clemenza di Tito, su libretto di Caterino Mazzolà, Opera di scarsa ispirazione.

Con l’avvento del nuovo Imperatore l’amministrazione delle “cose musicali” a corte torna saldamente nelle mani di Salieri e degli italiani e il povero Mozart è esiliato, per lavorare, nei teatri popolari.
L’impresario Emmanuel Schikaneder gli concede il periferico Teatro Auf der Wieden per allestire quella che resterà la sua ultima Opera, il Singspiel Die Zauberflote (Il Flauto magico).

All’alba del 5 dicembre 1791 Wolfgang Amadeus Mozart spira; il referto medico dice “di polmonite”. Accanto a lui, al momento del trapasso, non c’è nessuno:  la moglie Costanza era tornata dai genitori portando con sé il figlio già da un anno. Non essendoci soldi nemmeno per il funerale, Mozart è sepolto in una fossa comune. Il suo corpo non sarà mai ritrovato.

Al più grande musicista di tutti i tempi è negata persino una tomba.

A sua memoria restano le 626 partiture, monumento maestoso ed eterno al suo genio musicale.

sabato 4 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XVI, Mozart, parte I


Il ‘700 si apre e si chiude con due grandi musicisti di lingua tedesca: abbiamo visto il grande Hendel, all’inizio, troviamo l’immenso Mozart alla fine.

Per la critica musicale mondiale Wofgang Amadeus Mozart è unanimemente il più grande musicista mai vissuto sulla terra.

A conforto di questa impegnativa dichiarazione possiamo prendere in esame alcuni freddi dati, che, per loro natura, non mentono mai:
Scrisse la prima composizione a 5 anni (minuetto per tastiera in sol maggiore).
La prima sonata a 6 anni (pianoforte e violino in do maggiore)
La prima sinfonia a 9 (Numero 1 in mi bemolle maggiore).
La prima opera, l’intermezzo Apollo et Hyacinhtus su libretto in latino di Rufinus Wild, a 11 anni.

Ludwig von Kochel, che ha catalogato (Kochel Verzeichnis) per cronologia di composizione tutti i lavori di Mozart, assegna all’ultimo, il requiem, il numero 626. Mozart visse 35 anni e, pur sapendo che la K1 fu composta a soli 5 anni, 626 opere in 30 anni è una media spropositata. Basti pensare che Beethoven che visse ventun anni di più, porta in catalogo 138 lavori certi, che salgono a 205 nel catalogo Kinsky-Halm che conteggia, per ammissione degli stessi curatori, anche lavori di incerta attribuzione.

La quantità normalmente non è indice statistico di qualità, se mai vale spesso il contrario; la grandezza di Mozart sta invece proprio qui, nell’abbinare a una facilità compositiva stupefacente una qualità musicale tanto grande e innovativa da sbalordire ad ogni ascolto anche oggi, a oltre duecento anni dalla composizione.

Le vite dei grandi artisti sono spesso segnate da un episodio o un incontro che ne diventano il cardine, ne determinano la svolta. Per Mozart la figura chiave è sicuramente quella paterna, figura che lo condizionerà nel bene e nel male, nel successo e nella rovina.

Leopold Mozart a metà del settecento è compositore ed insegnante di musica con l'incarico di vice KappellMeister a Salisburgo, presso la corte dell'arcivescovo Anton Firmiane ed è sposato con Anna Maria Pertl. Il 27 Gennaio 1756 nasce il loro ottavo figlio che viene battezzato Joannes Chrisostomus (che ricorre in quella data) Wofgang (in omaggio al nonno materno) Teofilo (come il padrino di battesimo Teofilo Pergmayr). Il padre lo chiamerà nei primi anni affettuosamente Wolferl (lupetto), crescendo il ragazzo preferirà la traslitterazione latina di Teofilo Amadeus, che francesizzerà in Amadé dopo il 1771. Su sette figli nati dal matrimonio sopravvivono al primo anno di vita solo Marianna, di cinque anni maggiore e Amadeus.

Leopold Mozart si accorge subito della recettività musicale del piccolo Amadeus: a tre anni batteva i tasti del clavicembalo, a quattro suonava già brevi pezzi, a cinque compone il minuetto K1.
In una lettera ad un amico di Augusta, Johann Jakob Lotter, Leopold definisce suo figlio "Il miracolo che Dio ha fatto nascere a Salisburgo" e pertanto si sente in dovere di far conoscere il miracolo a tutto il mondo e magari di trarne qualche profitto.

Al posto di un’infanzia il piccolo Mozart ha una tourné: praticamente per 10 anni dal ’63 al ’73 Leopold Mozart porta il suo gioiello in giro per tutte le corti d’Europa ad esibirsi prima come enfant prodige al pianoforte, poi, dopo i dieci anni, anche come compositore. E’ a Monaco, Parigi, Napoli, Milano, Roma; conosce Bach, Paisiello, Hasse (che dichiarerà “Questo ragazzo ci farà dimenticare tutti”), Piccinni e Parini (che gli scriverà il libretto dell’Ascanio in Alba). Nel 1770 tiene un concerto privato per papa Clemente XIV che lo insignisce dello Speron d’oro.
Le lettere che Leopold scrive agli amici di Salisburgo raccontano l'universale ammirazione riscossa dai prodigi di suo figlio, ma si capisce che quello realmente felice è lui.

In realtà delle otto opere giovanili l’unica che si segnala per un certo successo è il Lucio Silla (libretto di de Gamerra da Metastasio) che viene eseguita a Milano nel 1772.

Ormai, si fa per dire, diciassettenne, Mozart rientra a Salisburgo. Suo padre ha capito che il ragazzo è troppo “vecchio” per fare il bambino prodigio, non è riuscito a sistemarlo presso le corti più importanti e vuole trovargli una sistemazione a Salisburgo, magari alla corte dell’arcivescovo che ora è l’odioso Hyeronimus Colloredo. Il giovane Amadeus è però sempre più insofferente alla meticolosa programmazione che il padre vuole fare della sua vita e chiede di andare a Parigi per provare a sfondare lì; Leopold acconsente ma lo fa accompagnare dalla mamma. Dopo l’esecuzione pubblica della sua prima sinfonia parigina, la madre si ammala improvvisamente e muore: fine del sogno parigino e rientro a Salisburgo. Leopold corona il sogno di vedere suo figlio assunto a corte come assistente musicale (per quanto con paga equiparata ai giovani di cucina…), e progetta di indirizzarlo verso una tranquilla carriera di KappelMeister, ma Amadeus non ci sta: ha 20 anni e, soprattutto, ha preso coscienza delle proprie capacità musicali e Salisburgo gli sta decisamente stretta. E non ne può più della vicinanza ossessiva di questo padre ingombrante che, da quando è venuto al mondo gli è stato col fiato sul collo.

Continua

giovedì 2 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XV, Cimarosa


L’altro grande autore napoletano di fine settecento è Domenico Cimarosa, che napoletano di nascita non è, in quanto nasce ad Aversa (oggi provincai di Caserta) il 17 dicembre 1749.
E’ figlio di Gennaro Cimarosa, un muratore occupato nella costruzione della Reggia di Capodimonte, che rimarrà vittima di quella che oggi definiremmo morte bianca, cadendo dal tetto del palazzo ancora in costruzione.
Da subito il giovane Domenico dimostrò di essere estremamente versato per la musica, tant'è che nel 1761 fu ammesso al Conservatorio di Santa Maria di Loreto, dove rimase undici anni studiando con Alessandro Scarlatti e Niccolò Piccinni.
Nel carnevale del 1772 debuttò come operista con la commedia per musica Le stravaganze del conte, data nella capitale partenopea al Teatro dei Fiorentini e seguita dalla farsetta Le magie di Merlina e Zoroastro, e fu l’inizio di una luminosa carriera.
I suoi intermezzi comici conquistarono Roma e di lì, con l'intermezzo L'italiana in Londra è la volta, nel 1780, della Scala di Milano, che era stata inaugurata appena due anni prima con Europa Riconosciuta di Salieri. L’anno dopo è la volta di Dresda, dove, nei primi anni ottanta, ben quattro sue opere saranno tradotte in tedesco.
A Napoli la sua fama è così fulgida che viene nominato Maestro di Cappella Reale, con grande rabbia di Paisiello.
Fino all’87 inanella un successo dietro l’altro in tutti i teatri d’Italia e, per la fama anche internazionale dovuta a Giannina e Bernardone viene chiamato da Caterina II a San Pietroburgo dove viene pure lì  nominato Maestro di Cappella Imperiale.
Cimarosa rimase in Russia tre anni componendo a ritmi forsennati, è comunque da ritenere come assolutamente falsa l'affermazione di Pompeo Cambiasi e altri biografi italiani che sostenevano che in quel periodo avesse scritto circa 500 opere!
Chiamato a Vienna da Leopoldo II (quello di Mozart), che conosceva da quando era granduca di Toscana, viene nominato Kappelmeister anche lì e messo in contatto con il librettista Giovanni Bertati, il quale era stato da poco nominato a sua volta Poeta di Corte. Questa unione generò quello che è considerato il capolavoro assoluto di Cimarosa: Il matrimonio segreto.
Questo lavoro detiene a tutt’oggi un record difficilmente battibile. Rappresentato al Burgtheater il 7 febbraio 1792, ebbe un tale strepitoso successo, che, nella stessa sera della prima, per volere dell'imperatore in persona, l'opera fu rimessa in scena per intero: unico caso nella storia dell’Opera di bis integrale.
Cimarosa ritornò a Napoli presumibilmente durante la primavera del 1793, dopo un'assenza di sei anni. Fu accolto con calore e il popolo lo acclamò al grido “è tornato o’ choiattone nuost” (è tornato il nostro grassone) giacché Cimarosa era alto quasi un metro e novanta ed era decisamente sovrappeso. Il matrimonio segreto, che fu messo subito in scena al Teatro dei Fiorentini, suscitò così tanto entusiasmo che fu replicato per ben 110 sere di fila.
Anche Cimarosa appoggiò la repubblica napoletana come Paisiello, ma lui ne scrisse addirittura l’inno, cosa che gli valse, da parte del vendicativo Re Ferdinando, la condanna a morte.


La pena, grazie all'intercessione di alcuni suoi influenti ammiratori fu commutata in esilio.
Si ritirò a Venezia, dove, l’11 gennaio 1801 morì improvvisamente di gastrite a soli 52 anni, sollevando inevitabili voci su un possibile avvelenamento da parte di emissari della monarchia napoletana. Pare invece si sia trattato, molto più prosaicamente, di tifo fulminante dovuto ad una scorpacciata di cozze.

mercoledì 1 maggio 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIV, Paisiello

Giovanni Paisiello, pugliese di Roccaforzata, nasce il 12 maggio 1740.
Studia a Napoli Conservatorio di S. Onofrio con Durante. L’idolo cinese, opera comica in napoletano  su libretto di Lorenzi, suo secondo lavoro, conquista nientemeno che Re Ferdinando e lo rende immediatamente famoso.
Un inizio di carriera così avrebbe fatto la felicità di qualsiasi musicista, invece Paisiello fu, immotivatamente, roso per tutta la vita da profonde invidie per i colleghi e rancorosi sospetti di congiure ai suoi danni. Quello che considerò sempre e unilateralmente acerrimo rivale fu il conterraneo Domenico Cimarosa, di cui tratteremo presto.
La sua fama di autore comico giunge a Mosca, dove, nel 1776 Caterina II gli offre la carica di maestro di cappella per tre anni, che saranno poi prolungati di altri quattro.
Lì metterà in scena i suoi capolavori, La serva padrona, che ricordiamo già musicata da Pergolesi e Il barbiere di Siviglia, che raggiunse subito grande fama a livello europeo. Vale la pena ricordare che, quando Rossini musicò lo stesso libretto con il titolo di Almaviva, venne sonoramente fischiato. Ai giorni nostri, con il titolo ritornato Il barbiere di Siviglia, l’opera rossiniana è la più rappresentata al mondo, mentre quella di Paisiello è caduta nel dimenticatoio, curiosa nemesi per chi aveva tentato di oscurare Pergolesi rifacendo la sua opera più famosa.
Nel 1783 torna a Napoli ed è dalla parte degli insorti della Repubblica napoletana di Pasquale Baffi e Francesco Caracciolo. E’ una delle rivoluzioni più atipiche della storia, la fanno i nobili, e sembra quasi un ossimoro; infatti la repubblica dura solo 5 mesi: a luglio, con l’appoggio della flotta di Nelson e senza l’intervento sperato dei francesi a fianco degli insorti, Ferdinando IV riprende la città. La restaurazione è feroce. 124 rivoluzionari, tutti membri delle migliori famiglie partenopee, sono condannati a morte per impiccagione, tra di loro Eleonora Pimmental Fonseca, a cui Enzo Striano dedicherà lo splendido romanzo Il resto di niente.
Paisiello se la cava con l’esilio e riesce a raggiungere Parigi, dove comporrà ancora, godendo della protezione nientemeno che di Napoleone, di cui si era conquistato i favori 5 anni prima con una marcia funebre composta per la morte del generale Hoche. Il pubblico di Parigi non lo apprezzò mai, tanto che, amareggiato e con gravi problemi di saluti, rientrò a Napoli dove morì il 5 giugno  1816.
Lasciò complessivamente 100 opere, tra cui spiccano La molinara e Nina, pazza per amore, tratta dalla “Comedie Larmoyante” dal francese Messolier de Vivetieres, tuttora in repertorio nei teatri di tutto il mondo.

martedì 30 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: intermezzo con i coniugi Hasse

Abbiamo incontrato, trattando di Gluck, il suo amico e mentore  Johan Adolf Hasse, che, malgrado fosse tedesco di nascita, fu senz’altro ascrivibile alla scuola napoletana, avendo studiato con Porpora e con Scarlatti. Divenne in Europa un grande vessillo dell’Opera italiana con un’autentica venerazione per Metastasio di cui musicò tutti i melodrammi.
Sposò la cantante Faustina Bordoni, che passò alla storia della musica lirica, oltre che per la voce, per una spettacolare rissa con la rivale Francesca Cuzzoni.

Avvenne a Londra il 6 giugno 1727. Durante una replica di Astianatte di Ariosti, alla presenza della Principessa di Galles Carolina di Ansbach, quando la Bordoni iniziò a cantare, gli ammiratori della Cuzzoni si scatenarono con fischi e canzonature. Scoppiò una rissa generale e le stesse due cantanti, sul palco, arrivarono a scagliarsi l'una contro l'altra, prendendosi a schiaffi, tirandosi i capelli e insultandosi in italiano davanto a un pubblico inglese in delirio, al grido di "troia" e "puttana”, come riportato testualmente dal Daily Courent.

L'episodio divenne subito celeberrimo e venne parodiato l’anno dopo da John Gay nella sua The Beggar's Opera, musicata da Cristoph Pepush.

lunedì 29 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIII, Gluck



Abbiamo visto come nella prima perte del XVIII secolo l’Opera italiana si sia diffusa capillarmente in tutta Europa dove praticamente non c’è corte che non abbia un Kappelmeister o un direttore artistico italiano, proveniente quasi sempre da Conservatori napoletani.
A metà del settecento inizia una decadenza artistica della lirica italiana che è quasi  inversamente proporzionale alla sua diffusione sul continente. Tutto nasce dal fatto che il pubblico, agli inizi, apprezzava soprettutto la bellezza melodica e il virtuosismo canoro e così la maggior parte dei compositori ridussero progressivamente i libretti ad una serie slegata di esecuzioni, di frettolosi recitativi e di arie ormai ricche solo di inutili vocalizzi, penalizzando l’azione drammatica, la verosimoglianza della vicenda e l’aderenza della musica al testo.
Gli impresari ci aggiunsero del loro, smontando e rimontando le opere, aggiungendo balletti e intermezzi a profusione e sfruttando il virtuosismo dei castrati solo per attirare il pubblico a teatro, dove, val la pena ricordarlo, si entrava verso le cinque e si usciva dopo mezzanotte, sfruttando il ristorante e il casinò annesso alla sala.
A metà del secolo anche il pubblico, ormai abituato ai castrati e agli effetti circensi, volta le spalle a questo tipo di spettacolo. Si impone un cambiamento, invocato da quasi tutti gli uomini di cultura europei: la cosiddetta riforma del melodramma è alle porte e il riformatore si chiama Christoph Willibald Gluck, noto in Italia soprattutto per figurare nel titolo di una canzone di Celentano.

Gluck è tedesco di Erasbach, dove nasce il 2 luglio del 1714.
Figlio di un funzionario statale deve letteralmente scappare di casa per seguire la strada di musicista.
Si stabilisce a Praga dove conosce Johan Adolf Hasse, compositore tedesco ma allievo di Porpora a Napoli, ne diventa amico e, con lui, gira l’Europa, stabilendosi prima a Parigi e poi a Milano dove  studia con il maestro Sammartini che gli da modo di approfondire tutti i generi operistici.
Il suo Artaserse, su libretto di Metastasio, debutta il 26 dicembre 1741 al Regio Ducal Teatro di Milano con ottimo successo.
Nel 1752 si stabilisce Vienna come Kappelmeister di un importante orchestra e conosce il livornese Ranieri de Calzabigi, con cui attua la famosa riforma: il manifesto dell’opera riformata è Orfeo e Euridice del 1762. In tutto saranno 45 le sue opere, 13 delle quali dopo l’Orfeo, che, per diffondere la sua nuova idea musicale, portò a Parigi e in Italia riscuotendo consensi unanimi ed entusiastici emulatori.
Lo scopo della riforma è tornare a rendere il melodramma un’autentica rappresentazione teatrale nello spirito aristotelico dell’unità di tempo e di luogo. Elementi fondamentali sono:
1.    La sinfonia d’apertura, che non è più un generico segnale d’inizio, ma deve calare lo spettatore nell’atmosfera della vicenda che va a cominciare.
2.    Le arie diventano di forma libera e con abolizione del tedioso “da-capo”.
3.    Il recitativo è solo obbligato, cioè accompagnato da tutta l’orchestra, e, scriverà lui stesso: “bisogna drammatizzare le arie e melodizzare i recitativi”
4.    Coro e balletti sì, ma solo se funzionali alla trama
5.    L’organico d’orchestra è allargato a 50 elementi tra fiati, archi e percussioni.

Anche i registri vocali vengono, per la prima volta, messi in discussione. I ruoli principali maschili, perseguendo l’ideale della monodia, erano stati sempre assegnati a registri innaturalmente alti: soprano, contralto, contraltino, falsettone. Per giunta l’esigenza di una recitazione verosimile contrastava pure con la fine dell’epoca dei castrati, costringendo ai ruoli da protagonista maschile soprani “en travesti”. Pensiamo all’effetto estraniante di un Giulio Cesare donna. Ci vorrà ancora quasi un secolo perché la situazione si normalizzi, già Mozart, però, darà a due virilissimi baritoni i ruoli da protagonista e spalla in Don Juan. Gluck muore a Vienna il 15 Novembre 1787.

domenica 28 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XII, Il Caro Sassone


L’alfiere del melodramma italiano in Inghilterra fu un tedesco.
Sembra l’inizio di quelle barzellette multietniche ed è invece la pura realtà e quel tedesco si chiamava Georg Friedrich Händel.
Nato a Halle sul Saale in Sassonia il 23 febbraio 1685 era il figlio di un barbiere che lo avrebbe voluto avvocato. Avviato invece allo studio dell’organo diventò il pupillo del compositore Johan Mattheson che lo volle ad Amburgo.
Nel 1705 compone  la sua prima opera Almira e su invito di Ferdinando de Medici visita per la prima volta l’Italia dove tra Firenze, Roma, Napoli e Venezia vanno in scena con grande successo le sue opere, tanto da meritargli il soprannome di “Caro Sassone”.
I suoi maestri riconosciuti sono Scarlatti, con cui rimase celebre una disfida all’organo, Corelli e Marcello.
Dal 1710 è Direttore musicale ad Hannover, dall’anno dopo la scelta di vita di trasferirsi a Londra definitivamente. Sarà tra i fondatori della Royal Academy of Music.
Avrà la carica di Maestro di Cappella Reale sotto ben tre sovrani Anna Stuart, Giorgio I Hannover e Giorgio II e la sua carriera conterà alla fine una mole di lavori imponente: 42 opere tutte con libretto in italiano tra cui spiccano Rinaldo e Giulio Cesare, 110 cantate, 20 concerti, 39 fra sonate, fughe e suite per cembalo e 12 Concerti Grossi.
Curiosa sventura lo accomunò al coetaneo Bach: entrambi soffrirono in vecchiaia di disturbi agli occhi e ambedue si rivolsero a un medico (?) inglese, tale John Taylor che li operò, di fatto accecandoli definitivamente. Händel si spense a Londra all’età di 74 anni.
Curiosità: Handel ebbe il privilegio di essere il primo compositore trasmesso via radio nella storia. Fu la vigilia di Natale del 1906 quando durante la messa in onda della prima trasmissione radiofonica di sempre da Brant Rock nel Massachussetts, fu mandato in onda il celeberrimo "Largo" dal Serse.