Abbiamo visto come nella
prima perte del XVIII secolo l’Opera italiana si sia diffusa capillarmente in
tutta Europa dove praticamente non c’è corte che non abbia un Kappelmeister o
un direttore artistico italiano, proveniente quasi sempre da Conservatori napoletani.
A metà del settecento
inizia una decadenza artistica della lirica italiana che è quasi inversamente proporzionale alla sua
diffusione sul continente. Tutto nasce dal fatto che il pubblico, agli inizi,
apprezzava soprettutto la bellezza melodica e il virtuosismo canoro e così la
maggior parte dei compositori ridussero progressivamente i libretti ad una
serie slegata di esecuzioni, di frettolosi recitativi e di arie ormai ricche
solo di inutili vocalizzi, penalizzando l’azione drammatica, la verosimoglianza
della vicenda e l’aderenza della musica al testo.
Gli impresari ci
aggiunsero del loro, smontando e rimontando le opere, aggiungendo balletti e
intermezzi a profusione e sfruttando il virtuosismo dei castrati solo per attirare
il pubblico a teatro, dove, val la pena ricordarlo, si entrava verso le cinque
e si usciva dopo mezzanotte, sfruttando il ristorante e il casinò annesso alla
sala.
A metà del secolo anche
il pubblico, ormai abituato ai castrati e agli effetti circensi, volta le
spalle a questo tipo di spettacolo. Si impone un cambiamento, invocato da quasi
tutti gli uomini di cultura europei: la cosiddetta riforma del melodramma è
alle porte e il riformatore si chiama Christoph Willibald Gluck, noto in Italia
soprattutto per figurare nel titolo di una canzone di Celentano.
Gluck è tedesco di Erasbach,
dove nasce il 2 luglio del 1714.
Figlio di un funzionario
statale deve letteralmente scappare di casa per seguire la strada di musicista.
Si stabilisce a Praga
dove conosce Johan Adolf Hasse,
compositore tedesco ma allievo di Porpora a Napoli, ne diventa amico e, con
lui, gira l’Europa, stabilendosi prima a Parigi e poi a Milano dove studia con il maestro Sammartini che gli da
modo di approfondire tutti i generi operistici.
Il suo Artaserse, su libretto di Metastasio, debutta
il 26 dicembre 1741 al Regio Ducal Teatro di Milano con ottimo successo.
Nel 1752 si stabilisce
Vienna come Kappelmeister di un importante orchestra e conosce il livornese
Ranieri de Calzabigi, con cui attua la famosa riforma: il manifesto dell’opera
riformata è Orfeo e Euridice del 1762. In tutto saranno 45
le sue opere, 13 delle quali dopo l’Orfeo,
che, per diffondere la sua nuova idea musicale, portò a Parigi e in Italia
riscuotendo consensi unanimi ed entusiastici emulatori.
Lo scopo della riforma è
tornare a rendere il melodramma un’autentica rappresentazione teatrale nello
spirito aristotelico dell’unità di tempo e di luogo. Elementi fondamentali
sono:
1.
La sinfonia
d’apertura, che non è più un generico segnale d’inizio, ma deve calare lo
spettatore nell’atmosfera della vicenda che va a cominciare.
2.
Le arie
diventano di forma libera e con abolizione del tedioso “da-capo”.
3.
Il recitativo
è solo obbligato, cioè accompagnato da tutta l’orchestra, e, scriverà lui
stesso: “bisogna drammatizzare le arie e melodizzare i recitativi”
4.
Coro e
balletti sì, ma solo se funzionali alla trama
5.
L’organico
d’orchestra è allargato a 50 elementi tra fiati, archi e percussioni.
Anche i registri vocali
vengono, per la prima volta, messi in discussione. I ruoli principali maschili,
perseguendo l’ideale della monodia, erano stati sempre assegnati a registri
innaturalmente alti: soprano, contralto, contraltino, falsettone. Per giunta l’esigenza
di una recitazione verosimile contrastava pure con la fine dell’epoca dei
castrati, costringendo ai ruoli da protagonista maschile soprani “en travesti”.
Pensiamo all’effetto estraniante di un Giulio Cesare donna. Ci vorrà ancora
quasi un secolo perché la situazione si normalizzi, già Mozart, però, darà a
due virilissimi baritoni i ruoli da protagonista e spalla in Don Juan. Gluck muore
a Vienna il 15 Novembre 1787.