martedì 30 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: intermezzo con i coniugi Hasse

Abbiamo incontrato, trattando di Gluck, il suo amico e mentore  Johan Adolf Hasse, che, malgrado fosse tedesco di nascita, fu senz’altro ascrivibile alla scuola napoletana, avendo studiato con Porpora e con Scarlatti. Divenne in Europa un grande vessillo dell’Opera italiana con un’autentica venerazione per Metastasio di cui musicò tutti i melodrammi.
Sposò la cantante Faustina Bordoni, che passò alla storia della musica lirica, oltre che per la voce, per una spettacolare rissa con la rivale Francesca Cuzzoni.

Avvenne a Londra il 6 giugno 1727. Durante una replica di Astianatte di Ariosti, alla presenza della Principessa di Galles Carolina di Ansbach, quando la Bordoni iniziò a cantare, gli ammiratori della Cuzzoni si scatenarono con fischi e canzonature. Scoppiò una rissa generale e le stesse due cantanti, sul palco, arrivarono a scagliarsi l'una contro l'altra, prendendosi a schiaffi, tirandosi i capelli e insultandosi in italiano davanto a un pubblico inglese in delirio, al grido di "troia" e "puttana”, come riportato testualmente dal Daily Courent.

L'episodio divenne subito celeberrimo e venne parodiato l’anno dopo da John Gay nella sua The Beggar's Opera, musicata da Cristoph Pepush.

lunedì 29 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIII, Gluck



Abbiamo visto come nella prima perte del XVIII secolo l’Opera italiana si sia diffusa capillarmente in tutta Europa dove praticamente non c’è corte che non abbia un Kappelmeister o un direttore artistico italiano, proveniente quasi sempre da Conservatori napoletani.
A metà del settecento inizia una decadenza artistica della lirica italiana che è quasi  inversamente proporzionale alla sua diffusione sul continente. Tutto nasce dal fatto che il pubblico, agli inizi, apprezzava soprettutto la bellezza melodica e il virtuosismo canoro e così la maggior parte dei compositori ridussero progressivamente i libretti ad una serie slegata di esecuzioni, di frettolosi recitativi e di arie ormai ricche solo di inutili vocalizzi, penalizzando l’azione drammatica, la verosimoglianza della vicenda e l’aderenza della musica al testo.
Gli impresari ci aggiunsero del loro, smontando e rimontando le opere, aggiungendo balletti e intermezzi a profusione e sfruttando il virtuosismo dei castrati solo per attirare il pubblico a teatro, dove, val la pena ricordarlo, si entrava verso le cinque e si usciva dopo mezzanotte, sfruttando il ristorante e il casinò annesso alla sala.
A metà del secolo anche il pubblico, ormai abituato ai castrati e agli effetti circensi, volta le spalle a questo tipo di spettacolo. Si impone un cambiamento, invocato da quasi tutti gli uomini di cultura europei: la cosiddetta riforma del melodramma è alle porte e il riformatore si chiama Christoph Willibald Gluck, noto in Italia soprattutto per figurare nel titolo di una canzone di Celentano.

Gluck è tedesco di Erasbach, dove nasce il 2 luglio del 1714.
Figlio di un funzionario statale deve letteralmente scappare di casa per seguire la strada di musicista.
Si stabilisce a Praga dove conosce Johan Adolf Hasse, compositore tedesco ma allievo di Porpora a Napoli, ne diventa amico e, con lui, gira l’Europa, stabilendosi prima a Parigi e poi a Milano dove  studia con il maestro Sammartini che gli da modo di approfondire tutti i generi operistici.
Il suo Artaserse, su libretto di Metastasio, debutta il 26 dicembre 1741 al Regio Ducal Teatro di Milano con ottimo successo.
Nel 1752 si stabilisce Vienna come Kappelmeister di un importante orchestra e conosce il livornese Ranieri de Calzabigi, con cui attua la famosa riforma: il manifesto dell’opera riformata è Orfeo e Euridice del 1762. In tutto saranno 45 le sue opere, 13 delle quali dopo l’Orfeo, che, per diffondere la sua nuova idea musicale, portò a Parigi e in Italia riscuotendo consensi unanimi ed entusiastici emulatori.
Lo scopo della riforma è tornare a rendere il melodramma un’autentica rappresentazione teatrale nello spirito aristotelico dell’unità di tempo e di luogo. Elementi fondamentali sono:
1.    La sinfonia d’apertura, che non è più un generico segnale d’inizio, ma deve calare lo spettatore nell’atmosfera della vicenda che va a cominciare.
2.    Le arie diventano di forma libera e con abolizione del tedioso “da-capo”.
3.    Il recitativo è solo obbligato, cioè accompagnato da tutta l’orchestra, e, scriverà lui stesso: “bisogna drammatizzare le arie e melodizzare i recitativi”
4.    Coro e balletti sì, ma solo se funzionali alla trama
5.    L’organico d’orchestra è allargato a 50 elementi tra fiati, archi e percussioni.

Anche i registri vocali vengono, per la prima volta, messi in discussione. I ruoli principali maschili, perseguendo l’ideale della monodia, erano stati sempre assegnati a registri innaturalmente alti: soprano, contralto, contraltino, falsettone. Per giunta l’esigenza di una recitazione verosimile contrastava pure con la fine dell’epoca dei castrati, costringendo ai ruoli da protagonista maschile soprani “en travesti”. Pensiamo all’effetto estraniante di un Giulio Cesare donna. Ci vorrà ancora quasi un secolo perché la situazione si normalizzi, già Mozart, però, darà a due virilissimi baritoni i ruoli da protagonista e spalla in Don Juan. Gluck muore a Vienna il 15 Novembre 1787.

domenica 28 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XII, Il Caro Sassone


L’alfiere del melodramma italiano in Inghilterra fu un tedesco.
Sembra l’inizio di quelle barzellette multietniche ed è invece la pura realtà e quel tedesco si chiamava Georg Friedrich Händel.
Nato a Halle sul Saale in Sassonia il 23 febbraio 1685 era il figlio di un barbiere che lo avrebbe voluto avvocato. Avviato invece allo studio dell’organo diventò il pupillo del compositore Johan Mattheson che lo volle ad Amburgo.
Nel 1705 compone  la sua prima opera Almira e su invito di Ferdinando de Medici visita per la prima volta l’Italia dove tra Firenze, Roma, Napoli e Venezia vanno in scena con grande successo le sue opere, tanto da meritargli il soprannome di “Caro Sassone”.
I suoi maestri riconosciuti sono Scarlatti, con cui rimase celebre una disfida all’organo, Corelli e Marcello.
Dal 1710 è Direttore musicale ad Hannover, dall’anno dopo la scelta di vita di trasferirsi a Londra definitivamente. Sarà tra i fondatori della Royal Academy of Music.
Avrà la carica di Maestro di Cappella Reale sotto ben tre sovrani Anna Stuart, Giorgio I Hannover e Giorgio II e la sua carriera conterà alla fine una mole di lavori imponente: 42 opere tutte con libretto in italiano tra cui spiccano Rinaldo e Giulio Cesare, 110 cantate, 20 concerti, 39 fra sonate, fughe e suite per cembalo e 12 Concerti Grossi.
Curiosa sventura lo accomunò al coetaneo Bach: entrambi soffrirono in vecchiaia di disturbi agli occhi e ambedue si rivolsero a un medico (?) inglese, tale John Taylor che li operò, di fatto accecandoli definitivamente. Händel si spense a Londra all’età di 74 anni.
Curiosità: Handel ebbe il privilegio di essere il primo compositore trasmesso via radio nella storia. Fu la vigilia di Natale del 1906 quando durante la messa in onda della prima trasmissione radiofonica di sempre da Brant Rock nel Massachussetts, fu mandato in onda il celeberrimo "Largo" dal Serse.

sabato 27 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XI, Rameau


Avevamo lasciato la Francia alla morte del “nostro” Lully, parliamo un po’ adesso dell’altra grande figura francese dell’Opera settecentesca che gli succede: Jean Philippe Rameau.
Rameau nasce a Digione il 25 settembre 1683.
E’ figlio di un organista che lo fa studiare musica in Francia e a Milano.
Protetto dal mecenate Alexandre “Le Riche” de la Pouplinière (Il soprannome gli viene dall’essere l’uomo più ricco di Francia dopo Luigi XV) ne diviene direttore dell’orchestra privata.
La prima Opera lirica, Hippolyte et Aricie, la compone quando ha già 50 anni ma da allora, divenuto compositore di corte, ne comporrà altre 9 e tutte di enorme successo.
Di carattere litigioso e permaloso, Rameau era pure estremamente tirchio, ragion per cui lavorerà molto spesso con librettisti evidentemente “a basso costo” col risultato di produrre lavori molto diseguali tra l’altezza della musica e la mediocrità del testo, non considerato, evidentemente, altrettanto importante.
Rameau è ricordato anche per essere stato il protagonosta di due grandi dispute.
La prima con i seguaci del defunto Lully, che trovavano la sua musica troppo complicata e arzigogolata, mentre, di riflesso, Rameau considerava Lully troppo leggero.
La musica di Rameau, considerato il vero inventore della Tragedy Lyrique francese, era un continuo di arie e recitativi frequentemente interrotto da danze e cori, dove la trama aveva carattere pretestuoso e la voce soccombeva irrimediabilmente alla musica. Quasi tutti i suoi lavori sono in 5 lunghi atti ad eccezione proprio della sua opera più celebre Les Indes galantes, che è un ballet-heroique in un prologo e 4 atti. Nella disputa con Lully la storia lo ha decretato comunque vincitore: lo schema operistico di Rameau divenne il riferimento per il Grand Opéra dell’ottocento francese.
Più curiosa la cosiddetta “Querelle des bouffons”, che contrappose Rameau ad una serie di uomini di cultura francesi, tra cui Rousseau, che apprezzavono La serva padrona di Pergolesi, schierandosi a favore dell’Opera buffa contro la musica paludata e, a loro dire, anche un po' noiosa del compositore. L’opera di Pergolesi era stata data come intermezzo dell’Aci e Galatea di Lully nel 1752 e aveva avuto un successo di pubblico straordinario. La querelle finì solo nel 1764, praticamente con la morte di Rameau il 12 settembre. Il mite Pergolesi, che era ormai morto da oltre un ventennio, mai avrebbe immaginato che un suo intermezzo scherzoso potesse dar adito a siffatta questione.

venerdì 26 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo X, Pergolesi

Il 4 gennaio 1710 nasce a Jesi Giovanni Battista Draghi.
Il bambino è affetto da una malformazione neonatale detta spina bifida, che gli rende precaria la deambulazione.
Giovanni è figlio di un funzionario statale che ha i mezzi adeguati per assecondare e far studiare quello che sembra un formidabile talento musicale.
La famiglia Draghi è originaria di Pergola, vicino a Urbino, e per questo a Jesi sono conosciuti come “i  pergolesi” e questo pseudonimo adotterà il piccolo Giovanni Battista come nome d’arte.
Dopo aver studiato privatamente organo e violino e aver confermato il potenziale talento è mandato a Napoli dove, al Conservatorio dei Poveri di Gesù Cristo, studia composizione con Francesco Durante.
Pergolesi non lascerà mai Napoli dove diverrà Maestro di Cappella del principe Ferdinando Colonna Stigliano, eccetto una volta, quando dovrà allestire la sua quinta Opera,  Il Flaminio a Roma.
Dopo il successo del Frate ‘nnammurat, sua seconda Opera, viene assunto alla Cappella Reale, con la motivazione: “al bisogno che tiene la Cappella Reale de’ soggetti che compongono sopra il gusto moderno”.
In cinque anni lascerà 5 Opere liriche:
1.      Salustia 1732 (intermezzo Nerina e Nibbio – putroppo andata persa)
2.      Lo frate ‘nnammurato 1732
3.      Il prigionier superbo 1733 (intermezzo La serva padrona)
4.      Adriano in Siria 1734 (intermezzo Livietta e Tracollo)
5.      Il Flaminio 1735
6.      L’Olimpiade 1735

Il 16 marzo 1736 la tubercolosi lo uccide a soli 26 anni in quel di Pozzuoli nel giorno in cui, vuole la leggenda, abbia completato lo Stabat Mater, il suo lavoro più famoso.

L’ascolto di un brano dalla Serva padrona può aiutarci a capire quanto Pergolesi influenzò Mozart e a farci rimpiangere tutto quello che una morte tanto prematura ci ha negato.
 
 

giovedì 25 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo IX Pietro Trapassi detto il Metastasio


Pietro Trapassi nasce a Roma il 3 gennaio 1698 ed è figlio di un droghiere.
Da piccolissimo si scopre una formidabile dote: sa comporre vesi a braccio e improvvisa a soggetto per strada, guadagnandosi molta ammirazione e pochi soldi dai passanti. Due letterati di fama, Vincenzo Gravina e Mario Lorenzini, lo notano mentre si esibisce in queste poesie improvvisate e
Gravina è impressionato a tal punto che decide di farlo studiare. Praticamente lo adotta, e lo fa partecipare a certami di improvvisazione nei salotti buoni di Roma. E’ in quel periodo che Gravina decide di ellenizzare il nome del suo protetto mutandolo da Trapassi in Matestasio, dal greco “metastasis” cioè passaggi, quando il termine ancora non aveva quel sinistro significato che la moderna oncologia gli ha attribuito.
Gravina e Lorenzini hanno visto giusto: il giovanotto è sveglio e a 12 anni traduce già l’iliade in ottave. A 16 anni prende i voti ma la carriera ecclesiastica non fa per lui e a 18 lascia il seminario.
Gravina lo porta con sé a Napoli che, come abbiamo visto, è la vera capitale della musica e il giovane Pietro rimane stregato dall’ambiente.
Nel 1718 il suo protettore muore improvvisamente lasciandolo però erede di 18.000 scudi che rappresentano una bella somma (un 700.000 Euro di oggi).
Va a studiare legge da un celebre avvocato Lodovico Castagnola, cui morendo Gravina l’ha affidato.
E’ allora che scriva il suo primo libretto, Gli orti esperidi che viene musicato da Nicola Porpora, ma l’arte mal si concilia con l’avvocatura e Metastasio non firma il lavoro che viene dato anonimo.
La protagonista femminile dell’Opera è Marianna Bulgarelli detta La Romanina, che rimane così colpita dal testo da costringerlo a venire allo scoperto. Conosciutolo gli assicura che, se lascerà la carriera forense per quella di scrittore, avrà un futuro assicurato.
Metastasio si fa convincere e si trasferisce a Roma, in casa della Romanina e di suo marito (che non sappiamo quanto fosse contento di questo), dove rimarrà 10 anni e conoscerà i principali compositori dell’epoca che frequentano la casa, quali Johann Adolf Hasse, Giovan Battista Pergolesi, Alessandro Scarlatti, Leonardo Vinci, Leonardo Leo, Francesco Durante e Benedetto Marcello. E per loro comincia a scrivere quelli che definisce melodrammi, cioè testi pensati esplicitamente per essere musicati in arie e recitativi: è nato così il primo librettista. Nel 1724 per Domenico Sarro scrive la Didone abbandonata che detiene a tutt’oggi il record di libretto più musicato: saranno 63 gli autori che si cimenteranno con quei versi nell’arco di circa cento anni (l’ultimo sarà Saverio Mercadante nel 1824)
Roma, e la romanina, cominciano a stargli stretti, la sua fama ha varcato i confini d’Italia e quando da Vienna gli viene offerto il posto di Poeta di Corte lasciato libero da Apostolo Zeno, lui decide di accettare e la Bulgarelli a malincuore lo lascia partire. Per giunta lui le lascia a carico il padre, la madre e una sorella… E’ il 1730, Pietro Metastasio non tornerà più a Roma.
A Vienna scrive le sue opere più rinomate che vengono musicate dagli autori più famosi del mondo che se le contendono letteralmente. I temi sono tutti storico-mitologici: Adriano, Demetrio, Issipile. Demofonte, Olimpiade, Clemenza di Tito, Achille in Sciro, Temistocle, Attilio Regolo.
Achille in Sciro musicata dal fido Domenico Sarro sarà l’Opera di apertura  del nuovo Teatro San Carlo di Napoli nel 1737.
Vivrà a Vienna il resto della vita tra agi e soddisfazioni. Solo alla fine subentrerà un po’ di malinconia per la notizia dalla morte della Romanina e per il rifiuto dei giovani autori, incluso Mozart che comunque aveva musicato nel ’72 Lucio Silla, per i suoi versi considerati non a torto ormai superati. Si spegnerà nella sua sontuosa casa di Vienna il 12 aprile 1782.

mercoledì 24 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo VIII - Finalmente Napoli

L’Opera Lirica arriva a Napoli soltanto nel 1651 con la compagnia romana dei “Febi Armonici” di Francesco Cirillo, che però è napoletano. Rappresentano L’incoronazione di Poppea di Monteverdi ed è un tale successo che Cirillo decide di fermarsi e adattare per oltre trent'anni le Opere veneziane al dialetto e ai costumi napoletani con l'aiuto del poeta Francesco Provenzale.

Regnano all'epoca Carlo di Borbone, detto poi III quando ascende al trono di Spagna, mentre prima era senza numero per discontinuità con gli angioini e i vicerè spagnoli.
Seguirà Ferdinando di Borbone, dalla numerazione ostica: prima IV di Napoli, poi III di Sicilia, infine I delle due Sicilie, detto il Re Nasone.

Napoli, nel '700, era la più popolosa, importante ed economicamente attiva città d'Italia e con circa 500.000 abitanti aveva 4 volte la popolazione di Roma e 2 volte quella di Milano.

Era la seconda città d'Europa (dopo Parigi) e la quinta nel modo, più grande di New York e di Tokio. Era soprattutto la splendida capitale barocca, amica delle arti, dei commerci, delle scienze, straripante di turisti e viaggiatori. Aveva già il sistema fognario ed è stata la prima città al mondo ad avere l'acqua corrente nelle case come pure i nomi delle strade e i numeri civici ai portoni. L'economia era basata sull'intensa attività portuale. L'Arsenale per la costruzione di navi, e relativo indotto, meccanica, setifici, cotonifici, imprese tessili e pastifici davano lavoro a diecine di migliaia di persone.
Nel Secolo dei lumi brillavano quelli napoletani: il filosofo Gian Battista Vico, i giuristi Pietro Giannone e Gaetano Filangeri che fu consulente di Benjamin Franklin per la Costituzione Americana, e gli economisti Ferdinando Galiani e Antonio Genovesi.
Per contro, grandi masse di diseredati erano spesso in balia della Guapparia, la proto camorra dell’epoca.
Il problema della delinquenza minorile fu risolto riconoscendo che il carcere non era adatto ai minori e un editto di Carlo III stabilì di “conservarli in luoghi adatti al recupero” che vennero perciò definiti Conservatori, oggi li chiameremmo riformatori.

A Napoli furono costruiti quattro Conservatori:
·         I Poveri di Gesù Cristo
·         La Pietà dei Turchini
·         Sant'Onofrio a Porta Capuana
·         Santa Maria di Loreto.
Qui si decise di formare i “quadri” per l’opera che si era nel frattempo diffusa, iniziando allo studio degli strumenti e al canto i giovani reclusi. I conservatori aggiunsero allora l’aggettivo “musicali”.
I principali maestri furono i grandi musicisti dell'epoca: Alessandro Scarlatti, Tommaso Traetta, Niccolò Jommelli e Nicola Antonio Porpora.

Ad Alessandro Scarlatti, che fu autore fecondissimo (114 opere) si deve la prima codifica dell’Opera, che restò in uso fino alla riforma di Gluck.
Le direttive principali a cui attenersi furono:
·         Sinfonia d’apertura (allegro, grave, presto)
·         Recitativo obbligato anziché secco
·         L’aria col da-capo (A-B-A)
·         I numeri vocali d’assieme (concertati) alla fine di ogni atto (in genere tre)
·         Abolizione delle danze e raro uso dei cori
·         Strumentazione con clavicembalo, archi e fiati

Dopo Scarlatti si rigetta inoltre definitivamente la mescolanza tra vicende drammatiche e personaggi comici che era tipica dell’opera veneziana e vengono a distinguersi due generi, l'Opera Seria e l'Opera Comica secondo questo schema:

Opera Seria                                                           Opera Comica e intermezzo
Tratta vicende solenni ed eroiche                              Tratta vicende della vita quotidiana
Personaggi storici o mitologici                                  Personaggi del ceto borghese
Cantato in italiano                                                     Cantato spesso in dialetto
Stile dotto e forme rigide                                          Forma aperta e facilmente rinnovantesi
Eseguita nei teatri principali                                      Eseguita in sale modeste
Grande organico orchestrale                                     Orchestra esigua
Soprani e tenori                                                         Bassi comici
Apostolo Zeno e Metastasio                                     oscuri poeti, poi Goldoni

Giova ricordare che la definizione Opera Comica è cosa ben diversa dall'Opèra Comique francese che sarà un genere ottocentesco in cui saranno ammessi anche dialoghi parlati ma che di comico non avrà proprio niente, pensiamo solo alla Carmen di Bizet che finisce a coltellate...


martedì 23 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo VII: i castrati


“Mulieres in ecclesiis taceant”, in italiano “Le donne in chiesa tacciano”. Cosi nientemeno che San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi. Allo stesso modo la pensavano i compositori del sedicesimo e diciasettesimo secolo, affidando quasi tutti i ruoli operistici femminili a uomini “en travesti” o, peggio, ai castrati.
I castrati erano giovani in età prepuberale che venivano sottoposti all’atroce pratica dell’orchiectomia, che consiste nell’asportazione dei testicoli.
La castrazione (dal sanscriro Kastràm, coltello) non consentiva a chi la subiva di raggiungere una normale maturità sessuale e, di conseguenza, la laringe e l'estensione vocale della preadolescenza erano in gran parte mantenute e il timbro si sviluppava con caratteristiche assolutamente sui generis mentre il blocco ormonale provocava un innaturale ingrassamento.
All’operazione seguiva un periodo di durissima scuola per i giovani destinati al canto, che permetteva di conseguire prestazioni virtuosistiche eccezionali.
Già nell’Orfeo di Monteverdi, Euridice è interpretata dal castrato Gualberto Magli.
La pratica della castrazione era comunque già allora considerata illegale, ma, vista la grande richiesta in occasione del diffondersi della lirica, proliferò grandemente fino alla metà del ‘700 in Francia e in Italia dove padri bisognosi e senza scrupoli offrivano spesso per denaro di immolare la virilità dei figli al “belcanto”.
L’estensione era formidabile, potendo coprire tutti i registri da tenore a soprano alto. I castrati più famosi furono Baldassarre Ferri, Matteo Sassano, Nicolò Grimaldi, Il Senesino, Carlo Broschi, detto Farinelli, Gaspare Pacchierotti e Giovanni Battista Velluti. Fu proprio il Velluti l’ultimo a calcare le scene esibendosi nel 1813 nell’Aureliano in Palmira di Rossini.
La pratica fortunatamente era già decaduta nella seconda metà del ‘700 con l’avvento del ruolo femminile del soprano e dell’uso del falsetone (falsetto di petto) da parte dei contraltisti. Nel 1786 Giuseppe Parini così si scagliava contro l’abietta pratica con la sua Ode all’evirazione:
Aborro in su la scena/Un canoro elefante/Che si trascina appena/Sulle adipose piante/E manda per gran foce/Di bocca un fil di voce./Ah! Pera lo spietato genitor/Che primiero tentò di ferro armato/L’esecrabile e fiero misfatto/Onde si duole/La mutilata prole.

lunedì 22 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma - Capitolo VI: Intanto a Londra...

Nell’Inghilterra del diciassettesimo secolo era ben radicato lo spettacolo teatrale, non stiamo parlando a caso della terra di Sakespeare! Forse fu proprio questa la causa per cui il melodramma incontrò più resistenza ad affermarsi che sul continente. La prima opera inglese fu Dido and Aeneas di Henry Purcell. Figlio del maestro di cappella del Re, Purcell, organista della cappella reale, passò l’intera vita a corte, intento allo studio delle arie a più voci e delle composizioni sacre. Dido and Aeneas 1689 fu la sua prima, e forse possiamo dire unica opera lirica, in quanto gli altri lavori teatrali sono in realtà delle sonorizzazioni, o musiche di scena per pièce recitate. Per trovare un'altra opera in lingua inglese di autore britannico si dovranno aspettare ben 350 anni per il Peter Grimes di Benjamin Britten. Dido and Aeneas, in inglese su libretto di Nahum Tate, fu allestita nel collegio femminile di Josias Priest a Chelsea e i ruoli femminili, cioè tutti tranne Enea, furono interpretati da allieve del college. Detta così sa un po’ di filodrammatica dopolavoristica, invece, evidentemente, il college disponeva di un teatro adeguato e di ottime voci, giacché le parti che ci sono rimaste sono articolate e ben orchestrate. La partitura che conosciamo noi è stata curata da Benjamin Britten e, il brano più celebre, When I am Laid in Earth, gli servì da linea guida per il suo celebre notturno. L’opera è in tre atti e conteneva sicuramente almeno un balletto giacché il direttore Josias Priest era insegnante di danza, e un finale in forma di Masque, genere tipicamente inglese consistente in una parata di maschere che invitavano il pubblico a canti e giochi. Purcell fa purtroppo parte della folta schiera dei musicisti scomparsi troppo presto, morì infatti di tubercolosi a soli 36 anni.
 

domenica 21 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma - Capitolo V: un fiorentino alla Corte di Francia

Giovan Battista Lulli nasce a Firenze, figlio di un garzone di mugnaio. Come divenne il più importatnte musicista di Francia del diciassettesimo secolo ha del fantastico. Intorno al 1640 Mademoiselle de Montpensier è una delle donne più potenti di Francia. Figlia del fratello di Luigi XIII, nubile (è detta la Grand Mademoiselle, assai più gradevole di zitellona) è donna di rara bruttezza ma colta e raffinata, con un salotto frequentato dalla migliore nobiltà di Francia. Quando sa che il suo amico Chevalier de Guise si deve recare in Italia per conto del Re, lo prega di portargli un bambino italiano, "se ne troverà di graziosi", con la stessa non chalance con cui noi oggi chiederemmo di portarci dei Gianduiotti a chi va a Torino… 
Il cavaliere di Guisa torna con il giovane Lulli, verosimilmente cedutogli per denaro dal padre. 
Il ragazzino non è evidentemente abbastanza jolie per la Signora e viene mandato a fare lo sguattero nelle cucine. Un approccio alla vita di questo tipo a10 anni, senza famiglia e in un paese straniero, in uno stato a metà tra Cenerentola e Oliver Twist, sembrerebbe il prologo di una tragedia. Invece sarà la Francia a dover fare i conti col figlio del mugnaio di Firenze. Il ragazzo non si perde d’animo e, appena può, si diletta di musica percuotendo pentole di varie dimensioni con i mestoli, ottenendo melodie a mo’ di carillon. Più che dai cuochi viene apprezzato dal Conte di Nogeant, che lo segnala alla padrona di casa, la quale lo riammette negli appartamenti e lo fa studiare musica. Eccelle subito col violoncello e con il clavicembalo, ma lo spirito toscano lo tradisce immediatamente, una sua composizione che prende pesantemente in giro la Grand Mademoiselle ha grande successo presso le maestranze di casa sì da giungere alle orecchie della signora stessa che lo caccia via. 
Ci penserà il suo protettore Nogeant a presentarlo all’orchestra di Corte, dove troverà subito il modo di mettersi in luce fondando il gruppo detto dei “Petits violons” per cui scrive musiche tanto originali da destare l’ineresse niente meno che del Re Luigi XIV, che lo invita ad esibirsi alla sua presenza. 
A corte, tra nobili intriganti che non vedono di buon occhio il successo dello scugnizzo italiano, Lulli trova un alleato inaspettato, il potentissimo Cardinale Mazzarino, che, non dimentico delle origini italiane, lo prende sotto protezione, facendolo collaborare al Xerse di Cavalli, in occasione delle nozze del Re Sole e facendolo nominare addirittura Sovrintendente Reale della Musica all’età di nemmeno 30 anni. 
Gli viene anche messo a disposizione un teatro nuovo, quello di Rue Vaugirard, in cui vanno in scena solo opere italiane, perché Lulli sotiene che la lingua francese non sia adatta ad esprimere sentimenti in musica. Nel 1673 c’è però l’incontro col poeta Philiipe Quinault che gli fa cambiare radicalmente opinione. I due pare siano fatti apposta per lavorare in coppia, Quinault gli legge i versi e Lulli, al clavicembalo, li veste di melodia: è nata l’opera lirica francese. La prima è Cadmo ed Ermione a cui faranno seguito altri 12 lavori, tutti di ispirazione mitologica e tutti di concezione ampiamente spettacolare: la struttura è in 5 atti, costumi e macchine sceniche sontuosamente barocchi, e l’orchestra è grande e prevede gli archi a sezioni così come i fiati, nonché un gran coro, curato direttamente da Lulli.

All’apice della carriera, quasi per omaggio alla nazione adottiva che gli ha dato tanto, diventa francese, modificando con una y finale, anche la grafia del nome.

Il padre indiscusso dell’opera francese scompare repentinamente all’età di 55 anni, in un modo che sarebbe ridicolo se non fosse, ovviamente, tragico. Dirigendo con il pesante “Baton da scena” un Te Deum di sua composizione, si colpisce accidentalmente un piede. L’infezione, trascurata, passa rapidamente in cancrena e Lully muore di setticemia a distanza di un mese dall’incidente. Da allora il Baton sarà sostituito dalla più sicura e salutare bacchetta corta.

sabato 20 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma - Intermezzo: Stradella, un finale genovese

Alessandro Stradella, era un uomo bellissimo e lo si può considerare sicuramente il primo esempio nel mondo dell'Opera di autore “maledetto” e talento dissipato, tipologia che ha avuto, purtroppo, numerosi epigoni. Nato a Nepi nel 1639, studia a Roma specializzandosi in canto e musica sacra. Per alcuni critici è il vero inventore del Concerto Grosso, termine usato però per la prima volta da Corelli. Nel 1667 lo troviamo a Venezia,dopo esser fuggito rocambolescamente da Roma a causa delle sue scandalose relazioni amorose con la moglie di un nobile. A Venezia trova lavoro come cantante e compositore al teatro San Zanipolo. Un nobile veneziano, rimasto anonimo, lo ingaggiò per dare lezioni di canto all’amante, non sapendo evidentemente con chi aveva a che fare. Stradella si innamorò della donna ricambiato e i due fuggirono insieme a Roma. Il nobile, estremamente geloso, ingaggiò per 300 pistole (moneta estremamente adatta all'uopo), due sicari, che lo trovarono in San Giovanni in Laterano, mentre cantava in un oratorio. La leggenda vuole che i due, impressionati e commossi dalla voce dello Stradella, lo avvicinassero a fine serata, non già per ammazzarlo, ma per avvisarlo del pericolo incombente. I sicari tornarono a Venezia riferendo di non averlo trovato, mentre Stradella con la giovane Hortensia, intanto diventata sue moglie, scappò la sera stessa con destinazione Torino.
La drammatica vicenda ha un finale genovese. Nel 1678 il musicista è infatti chiamato a Genova per allestire al Teatro Falcone la Forza dell’amor paterno. E’ un grande successo ma è anche la sua sentenza di morte: l’eco del successo giunge a Venezia, il nobile (cui va riconosciuta una certa tenacia, sono passati dieci anni dal tradimento...) assolda nuovamente dei sicari, questa volta verosimilmente meno sensibili all’arte che raggiungono Stradella a Genova, sorprendendolo nella sua casa di Via Ponte Reale la notte del 25 febbraio 1682. Hortensia cade subito sotti i colpi di pugnale mentre Stradella, ferito a morte, esce in strada e cerca di rifugiarsi nella chiesa di San Pietro a Banchi per chiedere asilo. Viene raggiunto dai suoi assasini e finito sulla scalinata del sagrato. La vicenda è talmente adatta ad un opera che diverrà soggetto di ben tre allestimenti, il più famoso dei quali è quello di Von Flutow Alessandro Stradella del 1844.

venerdì 19 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma - Capitolo IV: i primi Big

Francesco Cavalli 
Abbiamo già incontrato, parlando di teatri, i due nomi più grandi della scuola veneziana Cavalli e Monteverdi. Di Francesco Cavalli abbiamo già detto che fu impresario con la sua compagnia del teatro San Cassian, ma fu anche rinomato compositore. Nato a Crema, che allora era in veneto, si chiamava Pier Francesco Caletti-Bruni. Fu notato per il talento musicale dal nobile veneziano Federico Cavalli quando questi era governatore di Crema, che lo portò a Venezia per farlo studiare con Monteverdi e gli diede poi il suo cognome. Fu il compositore che ebbe maggior successo in città, dove si arrivò a rappresentare fino a 5 sue opere contemporaneamente. L’apice della fama lo toccò quando il cardinale Mazzarino lo volle a Parigi perché allietasse con una sua opera il matrimonio di Luigi XIV con Maria Teresa d’Austria. L’opera avrebbe dovuto essere l’Ercole amante, ma i ritardi nei lavori per il Theatre des machines alle Tuileries dell’architetto Gaspare Vigarani, unico teatro atto a contenere la formidabile macchina scenica progettata, costrinsero Cavalli a ripiegare su una sua creazione del ’47 Xerse che fu allestita nella sala delle cariatidi al Louvre, ma con scarso successo: ecco il primo fiasco della storia della litica. 
Tanto per ricordarci che siamo nello sfarzoso barocco, l’oscar per l’opera più megalomane va sicuramente ad un altro italiano, l’aretino Marc’Antonio Cesti, (dove curiosamente Marc sta per marchese!) il suo Pomo d’oro, composto per il matrimonio di Leopoldo I imperatore con l’infanta di Spagna Margherita Teresa il 12 dicembre 1666 a Vienna, prevedeva 5 atti e sessantasette scene e costò 100.000 talleri reali (equivalenti a circa 10 milioni di euro). Non fu mai più rappresentata.

Claudio Monteverdi 
Claudio Monteverdi è stato senza dubbio il compositore italiano più importante del secolo e il primo grande autore d'opera lirica. 
Il suo lavoro di compositore segna il passaggio dalla musica rinascimentale alla musica barocca. Allievo di Marc'Antonio Ingegneri, nel 1589 Monteverdi fu assunto alla corte di Mantova in qualità di corista e violinista e nel 1603 fu nominato dal duca Vincenzo Gonzaga maestro di cappella. Fino al suo quarantesimo compleanno lavorò principalmente su madrigali, componendo in tutto otto libri. Dalla monodia nel madrigale, con la sua enfasi su chiare linee melodiche, testo intelleggibile ed una placida musica di accompagnamento, fu un passo logico iniziare a comporre opere, specialmente per un compositore incline alla drammaticità che amava anche gli effetti sontuosi. 
Nel 1607 Monteverdi compose la sua prima opera, L'Orfeo, su libretto di Alessandro Striggio il giovane. A quell'epoca era normale per i compositori creare lavori su richiesta per occasioni speciali e quest'opera era intesa ad aggiungere lustro al carnevale annuale di Mantova. Questo lavoro è il primo esempio in cui un compositore assegna specifici strumenti a singole parti, ed è anche una delle prime grandi opere delle quali ci è pervenuta l'esatta composizione della strumentazione per la prima: 2 clavicembali, 2 contrabbassi, 10 viole, 1 arpa, 2 violini, 2 chitarrone, 2 organi di legno, 2 bassi di gamba, 4 tromboni, 1 regale, 2 cornetti,1 flauto, 1 clarino, 3 trombe. La trama è descritta in vivide immagini musicali che si sposano ai dialoghi dando luogo alla prima interpretazione realmente drammatica sulla scena. La divisione delle parti vocali è destinata a segnare il futuro del genere. 
Della sua seconda opera: Arianna, su libretto di Rinuccini, resta solo il celeberrimo lamento, ispirato dalla perdita della moglie Claudia. Assillato dalle pressanti e poco remunerative commissioni del duca Vincenzo Gonzaga Monteverdi si reca a Roma nel 1610 col proposito di donare al Papa Paolo V il Vespro della Beata Vergine. La speranza che lo anima, espressa in uno scambio epistolare con il cardinale Ferdinando Gonzaga, è di ottenere un posto gratuito al Seminario Romano per il figlio e per sé una nuova sistemazione. Le aspettative andarono deluse ma l'occasione si sarebbe ripresentata nel 1613.
In quell'anno Monteverdi, infatti, fu nominato, dai Procuratori della Serenissima Repubblica Veneta, direttore musicale della Basilica di San Marco a Venezia, dove ben presto fece rinascere il coro, che era in declino sotto il suo predecessore. Qui egli completò pure il sesto, settimo ed ottavo libro di madrigali. L'ottavo è il più grande, e contiene lavori scritti in un periodo di 30 anni, compresa la scena drammatica Combattimento tra Tancredi e Clorinda (1624), su libretto di Torquato Tasso, nella quale l'orchestra e le voci formano due entità separate, che agiscono come copia una dell'altra in una sorta di protostereofonia. Probabilmente Monteverdi fu ispirato a provare questo arrangiamento dalle due balconate opposte di San Marco, che avevano ispirato musica simile ad altri compositori, come Giovanni Gabrieli. Ciò che fa spiccare questa composizione sulle altre, è il primo utilizzo del tremolo (la veloce ripetizione dello stesso tono) e del pizzicato (pizzicare le corde con le dita) per ottenere "effetti speciali" nelle scene drammatiche.
Durante gli ultimi anni di vita Monteverdi si ammalò, ma ciò non lo tenne lontano dalla composizione dei suoi due ultimi capolavori operistici: Il ritorno di Ulisse in patria (1641), e l'opera storica (la prima) L'incoronazione di Poppea (1642). L'Incoronazione, su libretto di Busenello è considerata il punto culminante del lavoro di Monteverdi. Essa contiene scene tragiche e comiche (un nuovo sviluppo dell'opera), un ritratto più realistico dei personaggi, e melodie più calde, che non si erano mai sentite prima. Richiedeva un'orchestra più piccola, ed un ruolo meno prominente del coro. Questo lavoro ebbe anche una considerevole influenza sullo sviluppo della musica per chiesa, le messe in particolare. Monteverdi compose almeno diciotto opere, delle quali solo l'Orfeo, l'Incoronazione, Il Ritorno, e la famosa aria "Lamento di Arianna", dalla sua seconda opera - appunto, L'Arianna - sono sopravvissute.

giovedì 18 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma - Capitolo III: Roma e Venezia

Abbiamo detto Roma e Venezia.

Roma 
A Roma nacque la cosiddetta scuola romana grazie a Emilio ‘de Cavalieri, membro della Camerata, e al mecenatismo della famiglia Barberini, che costruì nel giardino del proprio palazzo, un teatro in legno da 3000 posti, degno di una grande corte europea. All’atto pratico la scuola romana non viene ricordata per l’alta qualità della sua produzione né per i suoi musicisti, i cui nomi suonano alle nostre orecchie per lo più sconosciuti: Landi, Vittori, Luigi Rossi, Mazzocchi. Va invece segnalato che proprio a Roma vedono la luce i primi esempi di opera buffa, grazie ai libretti comici scritti dal Cardinal Rospigliosi, futuro papa Clemente IX.

Venezia 
Molto più fortunata fu la direzione “est”, con la cosiddetta scuola veneziana. 
La prima novità, da definirsi epocale per la storia dell’opera, accadde a Venezia nel 1637, cioé l’apertura del primo teatro pubblico: Il Teatro San Cassian. 
Fino ad allora gli spettacoli si allestivano su piattaforme erette nelle sale e nei cortili di conventi e palazzi. Costruito dalla famiglia Tron di San Benedetto, vicino a Rialto, il San Cassian passa alla storia per aver ospitato nel 1637 il primo spettacolo lirico a pagamento, cioè destinato a chiunque potesse pagare un biglietto d'ingresso e non a un pubblico selezionato per inviti. Nell'occasione l'opera rappresentata è l'Andromeda, su libretto di Benedetto Ferrari e musica di Francesco Manelli, che è anche a capo della compagnia teatrale, e che realizza l'impresa di allestire opere liriche per la prima volta fuori dal sistema produttivo delle corti, insomma, è nato il primo sovrintendente teatrale. 
Il teatro d’opera risulta subito un buon affare e, nel giro di un anno aprono ben due nuovi grandi teatri: il San Giovanni e Paolo, in veneziano Zanipolo, e il San Moisé. Entro la fine del secolo Venezia avrà 16 teatri funzionanti e saranno stati rappresentati 358 melodrammi inediti. La compagnia del Manelli passa presto al San Giovanni e Paolo. Il suo posto al San Cassian viene preso dalla compagnia di Francesco Cavalli, allievo di Monteverdi, che nel 1639 mette in scena Le nozze di Teti e Peleo su libretto di Orazio Persiani. L'opera lirica diventa una delle attrazioni principali della città. Già nel carnevale del 1640 veneziani e turisti possono scegliere cosa vedere in un cartellone di tutto rispetto: al Teatro dei Santi Giovanni e Paolo, Manelli mette in scena l'Adone, su libretto del veneziano Paolo Vendramin; al San Cassiano esordisce come librettista l'avvocato Gian Francesco Busenello, che appronta per Cavalli Gli amori di Apollo e Dafne; al San Moisé si ripropone l'Arianna, il testo di Ottavio Rinuccini che, come vedremo, Monteverdi aveva già messo in musica nel 1608 alla corte di Mantova.

Il teatro all'italiana
Ora dunque c’è un pubblico pagante e quindi più esigente di quello che fino ad ora ha assistito agli spettacoli del “circuito nobiliare e delle corti” che erano “ad invito” e quindi completamente gratuiti. 
Nasce, per queste mutate esigenze, con il San Moisé, anche “fisicamente” un nuovo tipo di edificio per l’Opera, che si chiamerà Teatro all’italiana. I pochi teatri “al chiuso” erano stati, fino ad allora a schema greco, cioè con una platea a conchiglia e gradoni su cui sedevano gli spettatori e con la scena in basso, come nel Palladiano Olimpico di Vicenza. Ora nasce il teatro a ferro di cavallo con platea al centro, buca dell’orchestra e palcoscenico rialzato; nascono i palchi e il loggione. Sul palcoscenico arriva la cosiddetta  “scena ductilis”, con le quinte girevoli e i fondali mobili a discesa per facilitare i cambi di scena e variare le ambientazioni. I nobili stanno nei palchi, anzi qualche palco è acquistato dalle famiglie addirittura prima che il teatro sia ultimato, come nelle odierne cooperative immobiliari. La platea, che oggi è il settore più ambito, è riservata alla borghesia e ai commercianti mentre il loggione è il settore più economico. I palchi hanno, generalmente, una sala attigua attrezzata per il gioco di carte e per mangiare; di fatto l’ineresse per l’opera è generalmente esaurito nella “prima”, le repliche vedono spesso le tende dei palchi addirittura tirate giù per tutto il tempo per aver più privacy per il gioco e le conversazioni.

mercoledì 17 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma - Capitolo II, segue

Lo stesso anno della Dfane (1597) e quello successivo, vanno in scena altre due proto-opere ma di autori non appartenenti alla camerata ‘De Bardi, che proprio in quegli anni ha cambiato il nome in “Camerata Fiorentina” a seguito del trasferimento nel più grande palazzo di Jacopo Corsi. Entrambi gli autori di questi lavori sono monaci e, in qualche modo, antagonisti alle idee della Camerata. Il primo è il modenese Orazio Vecchi, grande madrigalista, che mette in scena a Venezia L’Amphiparnaso o Li disperati contenti, che, se da un lato rappresenta un passo indietro musicalmente, in quanto completamente polifonico con personaggi interpretati da un gruppo di voci, è pero la prima rappresentazione a tema popolare, i personaggi, cioè, sono quelli della commedia dell’arte, con tanto di Pantalone che parla in veneziano.

L’altro autore è il bolognese Adriano Banchieri, che presenta sempre a Venezia nel 1598 La pazzia senile, dramma madrigalesco su testo proprio. Questo è spesso citato come primo esempio di melodramma comico anche se il libretto appare povero e, sovente, addirittura triviale, con buona pace del saio indossato dall’autore. Anche scenicamente abbiamo qui un passo indietro, l’opera è interpretata da mimi mentre il coro polifonico è nascosto con l’orchestra dietro le quinte. Anche qui maschere: con Pantalone c’è pure Balanzone, nella trama, però, per la prima volta compare uno stilema classico del melodramma: il vecchio gabbato dai giovani amanti, proprio come nel Barbiere di Siviglia e nel Don Pasquale.

L’accoppiata Peri-Rinuccini torna in scena il 6 ottobre1600 e l’occasione è di quelle importanti: le nozze tra Maria ‘de Medici e Filippo IV di Francia. L’opera è Euridice ed è allestita a Palazzo Pitti. 
Questa volta forse ci siamo, questo è davvero il primo tentativo di opera compiuta. Il libretto in versi di 790 righe di Rinuccini presenta finalmente personaggi che interagiscono tra loro, la linea melodica di Peri è strettamente connessa con il testo e sottolinea le emozioni dei personaggi, e, soprattutto, l’alternarsi di recitativi e di arie ci portano dritti allo spirito  del melodramma come noi lo conosciamo. Jacopo Peri, che per i capelli rossi era detto “Lo Zazzerino”, e pare fosse un ottimo cantante, si riserva il ruolo di Orfeo. L’orchestra, termine forse impegnativo per un organico di quattro elementi, era composta da un clavicembalo, un chitarrone, una lira e un liuto e, come d’uso, era nascosta dietro il palco. Curiosamente Ottavio Rinuccini, vista l’occasione gioiosa della prima e sembrandogli di cattivo gusto mostrare in scena un protagonista che rimane vedovo ad una festa di nozze, modificò la trama di Orfeo e Euridice, introducendo un inconsueto lieto fine con Plutone che si fa commuovere da Orfeo e gli restituisce la sposa.

Il libretto di Rinuccini piacque tanto che, nel 1602, sempre a Palazzo Pitti, fu rimusicato, questa volta da Giulio Caccini, detto “il Romano”, benché per precisione fosse di Tivoli. Fa qui la sua comparsa una situazione tipo della lirica, la sana rivalità tra compositori, che farà spesso in futuro da motore propulsivo per la storia dell’opera. I due, in realtà sono amici e se Peri ha avuto il privilegio di essere rappresentato alle “nozze del secolo” è Caccini che diverrà certamente più famoso, perché pubblicherà il suo lavoro prima del rivale insieme con il saggio Nuove Musiche, in cui teorizza l’abbellimento, cioè “del se e del quando un cantante possa, di sua volontà, intervenire sulla partitura”, argomento di notevole attualità anche nei secoli a venire. Caccini, che è anche un ottimo cantante, è richiesto fuori dall’ambiente mediceo, soprattutto a Roma e Parigi, dove è proprio Maria ‘de Medici, ora regina di Francia, a volerlo espressamente. Caccini è diventato la prima star della storia dell’opera, ma il suo contributo non termina qui, sarà anche il padre della prima…prima donna, Francesca Caccini, detta “la Cecchina”, che, con Vittoria Archilei, detta “la Romanina”, furono i soprano più ricercati di questo periodo. 
Il melodramma, uscito da casa Bardi, cominciò a diffondersi col favore crescente del pubblico prendendo due direzioni opposte: a sud, Roma e a est, Venezia.

martedì 16 aprile 2013

Piccola Storia del Melodramma - Capitolo II, Come ebbe inizio

La Camerata Fiorentina 
Il 14 gennaio 1573, si riunisce per la prima volta a Firenze, in un palazzo al numero 3 di via ‘de Benci, tuttora esistente e allora di proprietà del conte Giovanni ‘de Bardi, la Camerata ‘de Bardi, poi nota come Camerata Fiorentina, un movimento spontaneo nato tra i nobili della città, che decidono di incontrarsi periodicamente per discutere in maniera del tutto informale ma con grande passione ed impegno, di musica, letteratura, scienza ed arti varie. Fanno parte del gruppo, oltre al conte Bardi, intellettuali, drammaturghi e musicisti come Girolamo Mei, Vincenzo Galilei (liutista, padre del più celebre Galileo e confidente del conte), Giulio Caccini, Emilio de' Cavalieri, Jacopo Peri, Jacopo Corsi, il savonese Gabriello Chiabrera e Ottavio Rinuccini. Questi colti gentiluomini elaborarono una teoria secondo la quale l’opera greca era in realtà uno spettacolo fatto di testi completamente musicati e, partendo dalla metrica dei versi, tentarono di ricreare quelle parti musicali di cui non restava più traccia. L’idea, per altro confermata dalle didascalie di scena, in seguito ritrovate, che prevedevano l’uso di flauti e cetre, portò di fatto questi musicisti a prendere una posizione molto critica contro la polifonia, come abbiamo visto allora imperante, che, con il sovrapporre tra loro le parti cantate, impediva la chiara comprensione delle parole e quindi nuoceva gravemente allo sviluppo drammatico di una vicenda scenica. 
Quindi, riprendendo il percorso del madrigale, decretarono l’apertura alla monodia e alla elaborazione di un linguaggio musicale nuovo che essi stessi definirono “recitar cantando” o “parlar cantando”. 
Vincenzo Galilei, che così poca fantasia dimostrerà nella scelta del nome di suo figlio, ha un formidabile guizzo di inventiva quando scrive, per la prima volta, nel suo Dialogo della musica antica e moderna del 1581 la parola “Melodramma”, questa paternità verrà in qualche modo usurpata da Pietro Metastasio centocinquant’anni dopo. Sempre Galilei teorizza nel suo Dialogo  per la prima volta la cosiddetta teoria degli affetti, secondo la quale la melodia e l’arrangiamento devono secondare l’argomento trattato dal testo, cosa che all’ascoltatore odierno pare assolutamente normale ma che, evidentemente, non era affatto scontata alla fine del ‘500.

E’ durante il carnevale del 1597, a casa di Jacopo Corsi in Via Tornabuoni 16 a Firenze, che va in scena Dafne, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, favola drammatica in un prologo e sei scene su testo in rima di Ottavio Rinuccini e musiche di Jacopo Peri. Le cronache dell’epoca la descrivono come la prima trionfale applicazione del recitar cantando con l’utilizzo di quella che potremmo definire “declamazione intonata” e, per molti musicologi, é questa la prima opera lirica, nonché primo successo da esportazione: tradotta in tedesco da Martin Opitz e musicata da Heinrich Schutz nel 1627 diventerà la prima opera tedesca. In realtà l’azione scenica pare fosse molto limitata, come nella tradizione delle cantate rinascimentali, e con i personaggi che non interagivano tra loro ma si rivolgevano sempre e solo al pubblico. L’uso del condizionale è d’obbligo in quanto della Dafne non ci è pervenuta nemmeno una nota.

Vale qui la pena di fare una piccola osservazione: la musica, insieme con la danza, che forse è messa ancor peggio, è stata penalizzata per anni da una sorta di volatilità insita nell’esecuzione. Oggi noi possiamo leggere Eschilo, Sofocle, Plauto e Terenzio, ammirare opere di Fidia, Raffaello e Leonardo ma lì c’è l’inchiostro, il marmo, i colori. La musica è fatta letteralmente d’aria, di vibrazioni e di onde sonore. La musica esiste solo quando è eseguita e riprodotta. Dal punto di vista acustico, i sistemi di riproduzione magnetica risalgono al 1890 grazie al fonografo di Edison, e sono solo degli anni venti del novecento le prime trasmissioni radio ufficiali. Questo significa, senza andare troppo indietro nel tempo, che, ad esempio, nessun vivente sa che voce avesse Maria Garcia Malibran, cioé la prima vera grande diva della lirica moderna che entrò direttamente nel mito morendo appena ventottenne, nel 1836, a seguito di una caduta da cavallo. Per la sua voce possiamo rifarci solo alle descrizioni delle cronache del tempo, non esistendo allora sistemi di riproduzione, di quelle favolose emissioni non rimane traccia alcuna. L’altro sistema di riproduzione, quello indiretto, è quello che ricorre alla notazione su spartito e che consente, perlomeno, di riprodurre melodia e accompagnamento. Gli spartiti del periodo che stiamo trattando erano piuttosto rozzi e dedicati quasi completamente alla linea melodica, con una sorta di raccomandazione agli orchestrali per un generico “basso continuo”; in seguito, come vedremo, e fino all’avvento del disco, lo spartito sarà strumento indispensabile per gli amanti della lirica per riascoltare in casa, dove c’era sempre un pianoforte e qualcuno che lo suonasse, arie e duetti. A fine ottocento, all’uscita delle prime teatrali le Edizioni Musicali mettevano già in vendita nei foyer le trascrizioni per pianoforte dell’opera andata in scena.