In questi giorni si stanno
versando i proverbiali fiumi d’inchistro a proposito delle Fondazioni Liriche
italiane. Alla fine, in buona sostanza, tutto il problema si riassume in questa
grande semplificazione: l’Opera Lirica costa tanto e il pubblico pagante non
riesce a coprirne i costi, in questo periodo i soldi scarseggiano, per cui,
piuttosto che tenere in vita a botte di milioni di denaro pubblico uno
spettacolo che interessa a pochi, abbandoniamo i teatri al loro destino e
impieghiamo le risosrse finanziarie dove servono di più.
Messa così sembra difficile anche
solo continuare a parlarne.
E invece mi permetto di gettare
nel fiume d’inchiostro di cui sopra anche un paio di gocce mie, giuro, non di
più.
Quando un’azienda qualsiasi va
male, due sono i rimedi, in economia, per provare a risanarla: abbassare le
uscite e aumentare le entrate. Attenzione non basta applicare uno solo dei due
rimedi, perché se diminuisco solo i costi, inevitabilmente arriverò a un punto
in cui comprometterò la funzionalità operativa dell’azienda. Vanno sicuramente eliminati
gli sprechi e razionalizzate le spese ma la parola “taglio”, così di moda, in
assoluto, non vuol dire niente e non ha un’accezione positiva nemmeno nella
lingua italiana.
Allora concentriamoci sull’aumento
delle entrate. Premessa necessaria: non esistono al mondo fondazioni liriche
che possano fare a meno di contributi “esterni”, per altro previsti nella forma
pubblica dalla legge italiana che, è bene ricordarlo, li prevede anche per
l’editoria, il cinema, i famigerati partiti politici, le televisioni, e le
associazioni culturali, suscitando curiosamente meno sdegno.
Certo, l’ideale sarebbe ridurre
al minimo le risorse provenienti dalle tasse dei cittadini e aumentare invece
le sponsorizzazioni private. Per far questo sono però indispensabili due
precondizioni: la detraibilità della sponsorizzazione (come avviene in maniera
totale negli Stati Uniti, ad esempio) e l’ampliamento dell’offerta musicale,
sia come numero di rappresentazioni che come varietà di generi.
Giova ricordare come, negli anni
’60, periodo d’oro del cinema di qualità italiano, i grandi film d’arte, tipo Gattopardo o Otto e mezzo, potevano essere realizzati grazie al denaro che i
produttori reperivano con i cosiddetti musicarelli, autentici abbomini
cinematografici con protagonisti cantanti di grido tipo Rita Pavone o Gianni
Morandi, che, però, costavano poco e incassavano moltissimo.
Ovviamente nessuno pensa di utilizzare
il Carlo Felice come un palco da feste di piazza, ma dare la possibilità al Jazz
o ad una musica leggera di qualità di trovare spazi adeguati e remunerativi nel
teatro rappresenta sicuaramente un’opportunità di accesso ad un nuovo tipo di
pubblico con conseguente apporto di nuova liquidità.
Ripensare la struttura come una
casa della Musica, con ristorante e negozi “in tema” è così assurdo? Perché i
centri di aggregazione giovanile devono restare i famigerati “Centri
commerciali”? Abbattere la barriera di soggezione che il teatro mette addosso a
chi non l’ha mai frequentato dovrebbe essere una delle prime missioni per chi
guida una macchina culturale con la sede nel centro della città.
Gli sponsor privati si attirano
con un’offerta che deve rispondere a criteri di qualità artistica (e come
orchestra e coro siamo per giunta tra quelli messi meglio in Italia, non lo
dico io ma famosi direttori d’orchestra) ma anche di numero di spettatori
raggiunti e di eventi realizzati così da innescare il famoso volano positivo
che permetta di dipendere meno dai soldi pubblici (e conseguentemente pure dai
politici) e valorizzare degnamente la Lirica, che, giova ricordarlo, è la
grandissima Eccellenza Tutta Italiana (da Monteverdi in poi).
Naturalmente non esiste una
bacchetta magica per risolvere i problemi all’istante ma, tra guardare solo a
un metro dal prorpio naso, pur se pagare stipendi e fornitori rimane una
drammatica necessità, e abbandonarsi a sogni di gloria effimeri c’è sicuramente
la famosa via di mezzo, forse anche più praticabile di quanto non sembri.
Servono competenza, decisione e un pizzico di coraggio. E, possibilmente,
provare a remare tutti (CDA, lavoratori, media e cittadinanza) nella stessa
direzione: il Carlo Felice in crisi è lo specchio di una città in crisi, una
sconfitta per tutti.
Grazie Signor Arduino, ottime riflessioni, valide sia per il pubblico e in generale per tutti i cittadini, sia per quei dipendenti del teatro tentati dall'idea che un organismo possa vivere senza un braccio o i polmoni o lo stomaco oppure il più umile tra gli organi: quello che ci fa defecare.
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