lunedì 29 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo XIII, Gluck



Abbiamo visto come nella prima perte del XVIII secolo l’Opera italiana si sia diffusa capillarmente in tutta Europa dove praticamente non c’è corte che non abbia un Kappelmeister o un direttore artistico italiano, proveniente quasi sempre da Conservatori napoletani.
A metà del settecento inizia una decadenza artistica della lirica italiana che è quasi  inversamente proporzionale alla sua diffusione sul continente. Tutto nasce dal fatto che il pubblico, agli inizi, apprezzava soprettutto la bellezza melodica e il virtuosismo canoro e così la maggior parte dei compositori ridussero progressivamente i libretti ad una serie slegata di esecuzioni, di frettolosi recitativi e di arie ormai ricche solo di inutili vocalizzi, penalizzando l’azione drammatica, la verosimoglianza della vicenda e l’aderenza della musica al testo.
Gli impresari ci aggiunsero del loro, smontando e rimontando le opere, aggiungendo balletti e intermezzi a profusione e sfruttando il virtuosismo dei castrati solo per attirare il pubblico a teatro, dove, val la pena ricordarlo, si entrava verso le cinque e si usciva dopo mezzanotte, sfruttando il ristorante e il casinò annesso alla sala.
A metà del secolo anche il pubblico, ormai abituato ai castrati e agli effetti circensi, volta le spalle a questo tipo di spettacolo. Si impone un cambiamento, invocato da quasi tutti gli uomini di cultura europei: la cosiddetta riforma del melodramma è alle porte e il riformatore si chiama Christoph Willibald Gluck, noto in Italia soprattutto per figurare nel titolo di una canzone di Celentano.

Gluck è tedesco di Erasbach, dove nasce il 2 luglio del 1714.
Figlio di un funzionario statale deve letteralmente scappare di casa per seguire la strada di musicista.
Si stabilisce a Praga dove conosce Johan Adolf Hasse, compositore tedesco ma allievo di Porpora a Napoli, ne diventa amico e, con lui, gira l’Europa, stabilendosi prima a Parigi e poi a Milano dove  studia con il maestro Sammartini che gli da modo di approfondire tutti i generi operistici.
Il suo Artaserse, su libretto di Metastasio, debutta il 26 dicembre 1741 al Regio Ducal Teatro di Milano con ottimo successo.
Nel 1752 si stabilisce Vienna come Kappelmeister di un importante orchestra e conosce il livornese Ranieri de Calzabigi, con cui attua la famosa riforma: il manifesto dell’opera riformata è Orfeo e Euridice del 1762. In tutto saranno 45 le sue opere, 13 delle quali dopo l’Orfeo, che, per diffondere la sua nuova idea musicale, portò a Parigi e in Italia riscuotendo consensi unanimi ed entusiastici emulatori.
Lo scopo della riforma è tornare a rendere il melodramma un’autentica rappresentazione teatrale nello spirito aristotelico dell’unità di tempo e di luogo. Elementi fondamentali sono:
1.    La sinfonia d’apertura, che non è più un generico segnale d’inizio, ma deve calare lo spettatore nell’atmosfera della vicenda che va a cominciare.
2.    Le arie diventano di forma libera e con abolizione del tedioso “da-capo”.
3.    Il recitativo è solo obbligato, cioè accompagnato da tutta l’orchestra, e, scriverà lui stesso: “bisogna drammatizzare le arie e melodizzare i recitativi”
4.    Coro e balletti sì, ma solo se funzionali alla trama
5.    L’organico d’orchestra è allargato a 50 elementi tra fiati, archi e percussioni.

Anche i registri vocali vengono, per la prima volta, messi in discussione. I ruoli principali maschili, perseguendo l’ideale della monodia, erano stati sempre assegnati a registri innaturalmente alti: soprano, contralto, contraltino, falsettone. Per giunta l’esigenza di una recitazione verosimile contrastava pure con la fine dell’epoca dei castrati, costringendo ai ruoli da protagonista maschile soprani “en travesti”. Pensiamo all’effetto estraniante di un Giulio Cesare donna. Ci vorrà ancora quasi un secolo perché la situazione si normalizzi, già Mozart, però, darà a due virilissimi baritoni i ruoli da protagonista e spalla in Don Juan. Gluck muore a Vienna il 15 Novembre 1787.

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