“Mulieres in ecclesiis taceant”, in
italiano “Le donne in chiesa tacciano”. Cosi nientemeno che San Paolo nella sua
prima lettera ai Corinzi. Allo stesso modo la pensavano i compositori del
sedicesimo e diciasettesimo secolo, affidando quasi tutti i ruoli operistici
femminili a uomini “en travesti” o, peggio, ai castrati.
I castrati erano giovani in età
prepuberale che venivano sottoposti all’atroce pratica dell’orchiectomia, che
consiste nell’asportazione dei testicoli.
La castrazione (dal sanscriro Kastràm,
coltello) non consentiva a chi la subiva di raggiungere una normale maturità
sessuale e, di conseguenza, la laringe e l'estensione vocale della
preadolescenza erano in gran parte mantenute e il timbro si sviluppava con
caratteristiche assolutamente sui generis mentre il blocco ormonale provocava
un innaturale ingrassamento.
All’operazione seguiva un periodo di
durissima scuola per i giovani destinati al canto, che permetteva di conseguire
prestazioni virtuosistiche eccezionali.
Già nell’Orfeo di Monteverdi, Euridice
è interpretata dal castrato Gualberto Magli.
La pratica della castrazione era
comunque già allora considerata illegale, ma, vista la grande richiesta in
occasione del diffondersi della lirica, proliferò grandemente fino alla metà
del ‘700 in Francia e in Italia dove padri bisognosi e senza scrupoli offrivano
spesso per denaro di immolare la virilità dei figli al “belcanto”.
L’estensione era formidabile, potendo
coprire tutti i registri da tenore a soprano alto. I castrati più famosi furono
Baldassarre Ferri, Matteo Sassano, Nicolò Grimaldi, Il Senesino, Carlo Broschi,
detto Farinelli, Gaspare Pacchierotti e Giovanni Battista Velluti. Fu proprio
il Velluti l’ultimo a calcare le scene esibendosi nel 1813 nell’Aureliano in Palmira di Rossini.
La pratica fortunatamente era già
decaduta nella seconda metà del ‘700 con l’avvento del ruolo femminile del
soprano e dell’uso del falsetone (falsetto di petto) da parte dei contraltisti.
Nel 1786 Giuseppe Parini così si scagliava contro l’abietta pratica con la sua Ode
all’evirazione:
Aborro in su la scena/Un canoro
elefante/Che si trascina appena/Sulle adipose piante/E manda per gran foce/Di
bocca un fil di voce./Ah! Pera lo spietato genitor/Che primiero tentò di ferro
armato/L’esecrabile e fiero misfatto/Onde si duole/La mutilata prole.
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