martedì 23 aprile 2013

Piccola storia del Melodramma: Capitolo VII: i castrati


“Mulieres in ecclesiis taceant”, in italiano “Le donne in chiesa tacciano”. Cosi nientemeno che San Paolo nella sua prima lettera ai Corinzi. Allo stesso modo la pensavano i compositori del sedicesimo e diciasettesimo secolo, affidando quasi tutti i ruoli operistici femminili a uomini “en travesti” o, peggio, ai castrati.
I castrati erano giovani in età prepuberale che venivano sottoposti all’atroce pratica dell’orchiectomia, che consiste nell’asportazione dei testicoli.
La castrazione (dal sanscriro Kastràm, coltello) non consentiva a chi la subiva di raggiungere una normale maturità sessuale e, di conseguenza, la laringe e l'estensione vocale della preadolescenza erano in gran parte mantenute e il timbro si sviluppava con caratteristiche assolutamente sui generis mentre il blocco ormonale provocava un innaturale ingrassamento.
All’operazione seguiva un periodo di durissima scuola per i giovani destinati al canto, che permetteva di conseguire prestazioni virtuosistiche eccezionali.
Già nell’Orfeo di Monteverdi, Euridice è interpretata dal castrato Gualberto Magli.
La pratica della castrazione era comunque già allora considerata illegale, ma, vista la grande richiesta in occasione del diffondersi della lirica, proliferò grandemente fino alla metà del ‘700 in Francia e in Italia dove padri bisognosi e senza scrupoli offrivano spesso per denaro di immolare la virilità dei figli al “belcanto”.
L’estensione era formidabile, potendo coprire tutti i registri da tenore a soprano alto. I castrati più famosi furono Baldassarre Ferri, Matteo Sassano, Nicolò Grimaldi, Il Senesino, Carlo Broschi, detto Farinelli, Gaspare Pacchierotti e Giovanni Battista Velluti. Fu proprio il Velluti l’ultimo a calcare le scene esibendosi nel 1813 nell’Aureliano in Palmira di Rossini.
La pratica fortunatamente era già decaduta nella seconda metà del ‘700 con l’avvento del ruolo femminile del soprano e dell’uso del falsetone (falsetto di petto) da parte dei contraltisti. Nel 1786 Giuseppe Parini così si scagliava contro l’abietta pratica con la sua Ode all’evirazione:
Aborro in su la scena/Un canoro elefante/Che si trascina appena/Sulle adipose piante/E manda per gran foce/Di bocca un fil di voce./Ah! Pera lo spietato genitor/Che primiero tentò di ferro armato/L’esecrabile e fiero misfatto/Onde si duole/La mutilata prole.

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