martedì 16 aprile 2013

Piccola Storia del Melodramma - Capitolo II, Come ebbe inizio

La Camerata Fiorentina 
Il 14 gennaio 1573, si riunisce per la prima volta a Firenze, in un palazzo al numero 3 di via ‘de Benci, tuttora esistente e allora di proprietà del conte Giovanni ‘de Bardi, la Camerata ‘de Bardi, poi nota come Camerata Fiorentina, un movimento spontaneo nato tra i nobili della città, che decidono di incontrarsi periodicamente per discutere in maniera del tutto informale ma con grande passione ed impegno, di musica, letteratura, scienza ed arti varie. Fanno parte del gruppo, oltre al conte Bardi, intellettuali, drammaturghi e musicisti come Girolamo Mei, Vincenzo Galilei (liutista, padre del più celebre Galileo e confidente del conte), Giulio Caccini, Emilio de' Cavalieri, Jacopo Peri, Jacopo Corsi, il savonese Gabriello Chiabrera e Ottavio Rinuccini. Questi colti gentiluomini elaborarono una teoria secondo la quale l’opera greca era in realtà uno spettacolo fatto di testi completamente musicati e, partendo dalla metrica dei versi, tentarono di ricreare quelle parti musicali di cui non restava più traccia. L’idea, per altro confermata dalle didascalie di scena, in seguito ritrovate, che prevedevano l’uso di flauti e cetre, portò di fatto questi musicisti a prendere una posizione molto critica contro la polifonia, come abbiamo visto allora imperante, che, con il sovrapporre tra loro le parti cantate, impediva la chiara comprensione delle parole e quindi nuoceva gravemente allo sviluppo drammatico di una vicenda scenica. 
Quindi, riprendendo il percorso del madrigale, decretarono l’apertura alla monodia e alla elaborazione di un linguaggio musicale nuovo che essi stessi definirono “recitar cantando” o “parlar cantando”. 
Vincenzo Galilei, che così poca fantasia dimostrerà nella scelta del nome di suo figlio, ha un formidabile guizzo di inventiva quando scrive, per la prima volta, nel suo Dialogo della musica antica e moderna del 1581 la parola “Melodramma”, questa paternità verrà in qualche modo usurpata da Pietro Metastasio centocinquant’anni dopo. Sempre Galilei teorizza nel suo Dialogo  per la prima volta la cosiddetta teoria degli affetti, secondo la quale la melodia e l’arrangiamento devono secondare l’argomento trattato dal testo, cosa che all’ascoltatore odierno pare assolutamente normale ma che, evidentemente, non era affatto scontata alla fine del ‘500.

E’ durante il carnevale del 1597, a casa di Jacopo Corsi in Via Tornabuoni 16 a Firenze, che va in scena Dafne, tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, favola drammatica in un prologo e sei scene su testo in rima di Ottavio Rinuccini e musiche di Jacopo Peri. Le cronache dell’epoca la descrivono come la prima trionfale applicazione del recitar cantando con l’utilizzo di quella che potremmo definire “declamazione intonata” e, per molti musicologi, é questa la prima opera lirica, nonché primo successo da esportazione: tradotta in tedesco da Martin Opitz e musicata da Heinrich Schutz nel 1627 diventerà la prima opera tedesca. In realtà l’azione scenica pare fosse molto limitata, come nella tradizione delle cantate rinascimentali, e con i personaggi che non interagivano tra loro ma si rivolgevano sempre e solo al pubblico. L’uso del condizionale è d’obbligo in quanto della Dafne non ci è pervenuta nemmeno una nota.

Vale qui la pena di fare una piccola osservazione: la musica, insieme con la danza, che forse è messa ancor peggio, è stata penalizzata per anni da una sorta di volatilità insita nell’esecuzione. Oggi noi possiamo leggere Eschilo, Sofocle, Plauto e Terenzio, ammirare opere di Fidia, Raffaello e Leonardo ma lì c’è l’inchiostro, il marmo, i colori. La musica è fatta letteralmente d’aria, di vibrazioni e di onde sonore. La musica esiste solo quando è eseguita e riprodotta. Dal punto di vista acustico, i sistemi di riproduzione magnetica risalgono al 1890 grazie al fonografo di Edison, e sono solo degli anni venti del novecento le prime trasmissioni radio ufficiali. Questo significa, senza andare troppo indietro nel tempo, che, ad esempio, nessun vivente sa che voce avesse Maria Garcia Malibran, cioé la prima vera grande diva della lirica moderna che entrò direttamente nel mito morendo appena ventottenne, nel 1836, a seguito di una caduta da cavallo. Per la sua voce possiamo rifarci solo alle descrizioni delle cronache del tempo, non esistendo allora sistemi di riproduzione, di quelle favolose emissioni non rimane traccia alcuna. L’altro sistema di riproduzione, quello indiretto, è quello che ricorre alla notazione su spartito e che consente, perlomeno, di riprodurre melodia e accompagnamento. Gli spartiti del periodo che stiamo trattando erano piuttosto rozzi e dedicati quasi completamente alla linea melodica, con una sorta di raccomandazione agli orchestrali per un generico “basso continuo”; in seguito, come vedremo, e fino all’avvento del disco, lo spartito sarà strumento indispensabile per gli amanti della lirica per riascoltare in casa, dove c’era sempre un pianoforte e qualcuno che lo suonasse, arie e duetti. A fine ottocento, all’uscita delle prime teatrali le Edizioni Musicali mettevano già in vendita nei foyer le trascrizioni per pianoforte dell’opera andata in scena.

2 commenti:

  1. Però l' "Euridice" ce l'abbiamo tutta, tanto da essere stata criticamente pubblicata ed eseguita nientemeno che dal suocero di Gianni Morandi!

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  2. Tempo al tempo, la piccola storia è in cento puntate... :-)

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