La Camerata
Fiorentina
Il 14 gennaio 1573, si riunisce per la prima volta a Firenze, in un
palazzo al numero 3 di via ‘de Benci, tuttora esistente e allora di proprietà
del conte Giovanni ‘de Bardi, la Camerata ‘de Bardi, poi nota come Camerata
Fiorentina, un movimento spontaneo nato tra i nobili della città, che
decidono di incontrarsi periodicamente per discutere in maniera del tutto
informale ma con grande passione ed impegno, di musica, letteratura, scienza ed
arti varie. Fanno parte del gruppo, oltre al conte Bardi, intellettuali,
drammaturghi e musicisti come Girolamo Mei, Vincenzo Galilei (liutista, padre
del più celebre Galileo e confidente del conte), Giulio Caccini, Emilio de'
Cavalieri, Jacopo Peri, Jacopo Corsi, il savonese Gabriello Chiabrera e Ottavio
Rinuccini. Questi colti gentiluomini elaborarono una teoria secondo la quale
l’opera greca era in realtà uno spettacolo fatto di testi completamente
musicati e, partendo dalla metrica dei versi, tentarono di ricreare quelle
parti musicali di cui non restava più traccia. L’idea, per altro confermata
dalle didascalie di scena, in seguito ritrovate, che prevedevano l’uso di
flauti e cetre, portò di fatto questi musicisti a prendere una posizione molto
critica contro la polifonia, come abbiamo visto allora imperante, che, con il
sovrapporre tra loro le parti cantate, impediva la chiara comprensione delle
parole e quindi nuoceva gravemente allo sviluppo drammatico di una vicenda
scenica.
Quindi, riprendendo
il percorso del madrigale, decretarono l’apertura alla monodia e alla
elaborazione di un linguaggio musicale nuovo che essi stessi definirono
“recitar cantando” o “parlar cantando”.
Vincenzo Galilei,
che così poca fantasia dimostrerà nella scelta del nome di suo figlio, ha un
formidabile guizzo di inventiva quando scrive, per la prima volta, nel suo Dialogo
della musica antica e moderna del 1581 la parola “Melodramma”, questa
paternità verrà in qualche modo usurpata da Pietro Metastasio
centocinquant’anni dopo. Sempre Galilei teorizza nel suo Dialogo per la prima volta la cosiddetta teoria
degli affetti, secondo la quale la melodia e l’arrangiamento devono
secondare l’argomento trattato dal testo, cosa che all’ascoltatore odierno pare
assolutamente normale ma che, evidentemente, non era affatto scontata alla fine
del ‘500.
E’ durante il
carnevale del 1597, a
casa di Jacopo Corsi in Via Tornabuoni 16 a Firenze, che va in scena Dafne,
tratta dalle Metamorfosi di Ovidio, favola drammatica in un prologo e
sei scene su testo in rima di Ottavio Rinuccini e musiche di Jacopo
Peri. Le cronache dell’epoca la descrivono come la prima trionfale
applicazione del recitar cantando con l’utilizzo di quella che potremmo
definire “declamazione intonata” e, per molti musicologi, é questa la prima
opera lirica, nonché primo successo da esportazione: tradotta in tedesco da
Martin Opitz e musicata da Heinrich Schutz nel 1627 diventerà la prima opera
tedesca. In realtà l’azione scenica pare fosse molto limitata, come nella
tradizione delle cantate rinascimentali, e con i personaggi che non
interagivano tra loro ma si rivolgevano sempre e solo al pubblico. L’uso del
condizionale è d’obbligo in quanto della Dafne non ci è pervenuta
nemmeno una nota.
Vale qui la pena di
fare una piccola osservazione: la musica, insieme con la danza, che forse è
messa ancor peggio, è stata penalizzata per anni da una sorta di volatilità
insita nell’esecuzione. Oggi noi possiamo leggere Eschilo, Sofocle, Plauto e
Terenzio, ammirare opere di Fidia, Raffaello e Leonardo ma lì c’è l’inchiostro,
il marmo, i colori. La musica è fatta letteralmente d’aria, di vibrazioni e di
onde sonore. La musica esiste solo quando è eseguita e riprodotta. Dal punto di
vista acustico, i sistemi di riproduzione magnetica risalgono al 1890 grazie al
fonografo di Edison, e sono solo degli anni venti del novecento le prime
trasmissioni radio ufficiali. Questo significa, senza andare troppo indietro
nel tempo, che, ad esempio, nessun vivente sa che voce avesse Maria Garcia
Malibran, cioé la prima vera grande diva della lirica moderna che entrò
direttamente nel mito morendo appena ventottenne, nel 1836, a seguito di una
caduta da cavallo. Per la sua voce possiamo rifarci solo alle descrizioni delle
cronache del tempo, non esistendo allora sistemi di riproduzione, di quelle
favolose emissioni non rimane traccia alcuna.
L’altro
sistema di riproduzione, quello indiretto, è quello che ricorre alla notazione
su spartito e che consente, perlomeno, di riprodurre melodia e accompagnamento.
Gli spartiti del periodo che stiamo trattando erano piuttosto rozzi e dedicati
quasi completamente alla linea melodica, con una sorta di raccomandazione agli
orchestrali per un generico “basso continuo”; in seguito, come vedremo, e fino
all’avvento del disco, lo spartito sarà strumento indispensabile per gli amanti
della lirica per riascoltare in casa, dove c’era sempre un pianoforte e
qualcuno che lo suonasse, arie e duetti. A fine ottocento, all’uscita delle
prime teatrali le Edizioni Musicali mettevano già in vendita nei foyer
le trascrizioni per pianoforte dell’opera andata in scena.
Però l' "Euridice" ce l'abbiamo tutta, tanto da essere stata criticamente pubblicata ed eseguita nientemeno che dal suocero di Gianni Morandi!
RispondiEliminaTempo al tempo, la piccola storia è in cento puntate... :-)
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