L’uomo
che ha cambiato la storia del melodramma è fuor di dubbio Giuseppe Verdi da Roncole
di Busseto. La sua storia musicale, strepitosa e lunghissima (nato nel 1813
come Wagner, riuscì a vedere l’alba del nuovo secolo, spegnendosi nel 1901) è
da considerarsi un capolavoro di asimmetria produttiva. Nato in una famiglia
poverissima, il talento naturale per la musica gli fu notato dal lungimirante
commerciante Antonio Barezzi, che ne divenne sponsor e suocero. La prima
curiosa “stranezza” della carriera artistica di Verdi è non essere riuscito a
farsi ammettere a quel Conservatorio di Milano che oggi porta il suo nome.
Bocciato irrimediabilmente nel 1833 (complimenti alla commissione per la
perspicacia…) resta a vivere a Milano e studia privatamente col maestro Lavigna.
Nel 1836 sposa Margherita Barezzi e la porta a vivere con lui a Porta Ticinese
in una casa umida, fredda, senza luce nè riscaldamento. I disagi sono tali che
ben due figli della coppia nel giro di due anni muoiono senza aver compiuto il
primo anno d’età.
Nel
1839 La Scala accetta il suo primo lavoro e mette in scena Oberto, Conte di San Bonifacio, con discreto successo. E’ un fuoco
di paglia, Bartolomeo Merelli gli commissiona l’anno dopo Un giorno di regno, opera buffa. A giugno del 1840 dopo i figli
anche Margherita, la moglie di Verdi, muore e l’opera cade miseramente alla
prima a settembre dello stesso anno. Verdi ha 27 anni ed è praticamente un
fallito, si sente responsabile della morte per stenti di una moglie e due figli
e il suo lavoro è stato stroncato unanimemente da tutta la critica. Potrebbe
essere la fine.
E
, invece, è l’inizio di tutto. Merelli, il sovrintendente della Scala, decide
di dare a questo giovane sfortunato e caparbio la proverbiale seconda
occasione. Temistocle Solera ha scritto un libretto interessante Nabuccodonosor (poi accorciato in Nabucco per semplicità di lettura) e la
vicenda sembra adatta alle doti di composizione epico-eroica di Verdi: è un
trionfo. Il coro del terzo atto “Va pensiero” diventa l’inno segreto degli indipendentisti
italiani (il che, più di recente, causò qualche confusione a Bossi, che lo
prese come coro dei lombardi mentre è cantato da ebrei in cattività a
Babilonia).
Da
qui parte quel pezzo di carriera verdiana che va sotto il nome di “anni di
galera”. Sono otto anni in cui Verdi compone, appunto, come un forzato e mette
in scena 13 opere (fa una media di una ogni sette mesi!) con lo scopo
principale di non soffrire mai più la fame e che nessuno dei suoi cari debba
soffrirla a causa sua. L’intento del benessere economico è raggiunto anche se
molti titoli di questo periodo non sono certamente tra i suoi migliori, visto
che accanto a Ernani e Macbeth troviamo pure Alzira, Stiffelio e il Corsaro,
riproposti raramente oggi e quasi sempre a titolo di curiosità.
Tra
il 1851 e il 1853 c’è il Turning Point della carriera di Verdi e di tutta
l’opera italiana dell’ottocento. Verdi diventa il nostro uomo di teatro, come
per gli inglesi è stato Shakespeare, e cambia il modo di raccontare una storia
e i suoi personaggi con la musica e il canto: dopo Rigoletto, Traviata e Trovatore nulla sarà come prima, è
quella che sarà definita a posteriori “la trilogia popolare”.
Nel
’53 Giuseppe Verdi ha 40 anni, ha composto 19 opere ed è diventato il musicista
più famoso al mondo.
Verdi
vivrà ancora altri 48 anni nei quali comporrà solo 9 opere (una ogni 5 anni
abbondanti) con un crescendo di qualità che culminerà nella formidabile quaterna
finale: Don Carlos, Aida, Otello e Falstaff.
Nessun
musicista ha avuto una simile vertiginosa asimmetria di fortuna e carriera in
88 anni di vita.
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