venerdì 12 aprile 2013

Verdi e la carriera asimmetrica

L’uomo che ha cambiato la storia del melodramma è fuor di dubbio Giuseppe Verdi da Roncole di Busseto. La sua storia musicale, strepitosa e lunghissima (nato nel 1813 come Wagner, riuscì a vedere l’alba del nuovo secolo, spegnendosi nel 1901) è da considerarsi un capolavoro di asimmetria produttiva. Nato in una famiglia poverissima, il talento naturale per la musica gli fu notato dal lungimirante commerciante Antonio Barezzi, che ne divenne sponsor e suocero. La prima curiosa “stranezza” della carriera artistica di Verdi è non essere riuscito a farsi ammettere a quel Conservatorio di Milano che oggi porta il suo nome. Bocciato irrimediabilmente nel 1833 (complimenti alla commissione per la perspicacia…) resta a vivere a Milano e studia privatamente col maestro Lavigna. Nel 1836 sposa Margherita Barezzi e la porta a vivere con lui a Porta Ticinese in una casa umida, fredda, senza luce nè riscaldamento. I disagi sono tali che ben due figli della coppia nel giro di due anni muoiono senza aver compiuto il primo anno d’età.
Nel 1839 La Scala accetta il suo primo lavoro e mette in scena Oberto, Conte di San Bonifacio, con discreto successo. E’ un fuoco di paglia, Bartolomeo Merelli gli commissiona l’anno dopo Un giorno di regno, opera buffa. A giugno del 1840 dopo i figli anche Margherita, la moglie di Verdi, muore e l’opera cade miseramente alla prima a settembre dello stesso anno. Verdi ha 27 anni ed è praticamente un fallito, si sente responsabile della morte per stenti di una moglie e due figli e il suo lavoro è stato stroncato unanimemente da tutta la critica. Potrebbe essere la fine.
E , invece, è l’inizio di tutto. Merelli, il sovrintendente della Scala, decide di dare a questo giovane sfortunato e caparbio la proverbiale seconda occasione. Temistocle Solera ha scritto un libretto interessante Nabuccodonosor (poi accorciato in Nabucco per semplicità di lettura) e la vicenda sembra adatta alle doti di composizione epico-eroica di Verdi: è un trionfo. Il coro del terzo atto “Va pensiero” diventa l’inno segreto degli indipendentisti italiani (il che, più di recente, causò qualche confusione a Bossi, che lo prese come coro dei lombardi mentre è cantato da ebrei in cattività a Babilonia).
Da qui parte quel pezzo di carriera verdiana che va sotto il nome di “anni di galera”. Sono otto anni in cui Verdi compone, appunto, come un forzato e mette in scena 13 opere (fa una media di una ogni sette mesi!) con lo scopo principale di non soffrire mai più la fame e che nessuno dei suoi cari debba soffrirla a causa sua. L’intento del benessere economico è raggiunto anche se molti titoli di questo periodo non sono certamente tra i suoi migliori, visto che accanto a Ernani e Macbeth troviamo pure Alzira, Stiffelio e il Corsaro, riproposti raramente oggi e quasi sempre a titolo di curiosità.
Tra il 1851 e il 1853 c’è il Turning Point della carriera di Verdi e di tutta l’opera italiana dell’ottocento. Verdi diventa il nostro uomo di teatro, come per gli inglesi è stato Shakespeare, e cambia il modo di raccontare una storia e i suoi personaggi con la musica e il canto: dopo Rigoletto, Traviata e Trovatore nulla sarà come prima, è quella che sarà definita a posteriori “la trilogia popolare”.
Nel ’53 Giuseppe Verdi ha 40 anni, ha composto 19 opere ed è diventato il musicista più famoso al mondo.
Verdi vivrà ancora altri 48 anni nei quali comporrà solo 9 opere (una ogni 5 anni abbondanti) con un crescendo di qualità che culminerà nella formidabile quaterna finale: Don Carlos, Aida, Otello e Falstaff.
Nessun musicista ha avuto una simile vertiginosa asimmetria di fortuna e carriera in 88 anni di vita.

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